Fare body shaming può essere un reato, ecco cosa stabilisce la sentenza della Corte di Cassazione e quali sono gli aspetti penali della condotta.
Il body shaming non è certo un concetto nuovo, anche se soltanto negli ultimi anni è iniziata una considerazione seria del problema. In parte ciò è dovuto all’incremento di utilizzo dei social network, che non sono responsabili di questa condotta ma possono aggravarla se utilizzati impropriamente, ma anche a una diversa sensibilizzazione sociale.
Si tratta senza dubbio di una condotta dannosa e potenzialmente lesiva di diversi diritti, in principio quello all’onore e alla reputazione personale. Per questo motivo è interesse anche per la giurisprudenza, tanto che una recente sentenza della Corte di Cassazione giudica questa condotta un reato. Ecco cos’è successo e quando il body shaming è reato.
Cos’è il body shaming
Spesso alcuni termini stranieri entrano a far parte del nostro vocabolario corrente perché non esiste un corrispettivo esatto in italiano, ma non è questo il caso. Si può tranquillamente tradurre body shaming con “far vergognare qualcuno per il suo corpo”, denigrarlo per l’aspetto esteriore e fisico. Ovviamente, però, la traduzione non è così concisa e immediata.
Cosa comprende quindi il body shaming? Senza dubbio insulti e offese dirette, ma anche giochi di parole o allusioni in varia forma (per esempio attraverso la comparazione di immagini o suoni con una foto della vittima). Il body shaming non è propriamente un concetto giuridico, ma interessa la legge per diverse ragioni.
Innanzitutto per gli eventuali danni cagionati alla vittima, anche considerando che con i social network il fenomeno può rapidamente assumere un’ampia portata. Già in passato alcuni giudici sono intervenuti sull’argomento, ma possiamo ora affidarci anche a una sentenza della Corte di Cassazione per capire le conseguenze penali di questa condotta, creando un precedente innovativo.
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La sentenza della Cassazione
Il body shaming comprende insulti, offese e derisioni prettamente incentrate sull’aspetto fisico altrui, dunque non esiste una fattispecie giuridica precisa in cui rientra questa condotta, ma secondo la Corte di Cassazione può integrare il reato di diffamazione o diffamazione aggravata.
Nel dettaglio, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 20251/2022 ha stabilito che le offese gratuite e cattive integrano il reato di diffamazione. Il caso su cui si è pronunciata la Corte riguardava un post su Facebook, in cui l’autore del reato derideva la vittima perché ipovedente. Si applica la normativa sulla diffamazione perché la pubblicazione sui social può raggiungere diverse persone, sicuramente più di una, ma anche perché nel caso specifico la vittima era considerata assente.
Il reato di diffamazione, infatti, non si ha se l’offesa viene rivolta in presenza della vittima stessa, considerando che quest’ultima può difendersi e soprattutto tutelare personalmente la propria reputazione e il proprio onore. Se la vittima è presente alle offese si parla invece di ingiuria, un illecito civile che dà comunque diritto al risarcimento dei danni.
La sentenza della Cassazione è innovativa perché interpreta questo concetto applicandolo al funzionamento dei social network, considerando la vittima assente perché non era online al momento della pubblicazione del post. Si può fare la stessa considerazione quando la persona offesa non può vederlo (ad esempio perché l’autore ha applicato delle restrizioni o perché non è tra i suoi amici sul social).
Quando il body shaming è reato
Come si intuisce, il body shaming può concretizzarsi in diversi modi, talvolta le offese avvengono anche in modo molto sottile. Guardando alla giurisprudenza, che non è ricca sul tema seppur questa condotta esista da sempre, si può evincere che non si ha reato (perché non c’è diffamazione) quando:
- la vittima è presente alle offese (si parla di ingiuria, che è stata depenalizzata);
- le offese sono narrate a una sola persona e non avviene passaparola;
- c’è body shaming ma non ci sono offese evidenti alla sua reputazione.
L’ultima ipotesi citata riguarda, per esempio, i video che riprendono la vittima in atteggiamenti imbarazzanti, che ne mettono in risalto e in ridicolo alcuni elementi fisici con lo scopo di far ridere gli altri. In questi casi, mortificare la vittima è un fine secondario, anche se ovviamente avviene lo stesso. Non si può però parlare di diffamazione, poiché non ci sono dirette offese alla sua reputazione. Al più, si può integrare il trattamento illecito di dati personali.
Infine, il body shaming può integrare anche il reato di stalking quando costringe la vittima a modificare le proprie abitudini a causa dello stato di ansia persistente generato dalla condotta denigratoria ripetuta. Al di fuori delle ipotesi di reato, la persona offesa potrebbe in ogni caso avere diritto a un risarcimento danni per le sofferenze patite.
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