Cingolani, la transizione ecologica e il “debito” del progresso
Giuseppe Montalbano
22 febbraio 2021
Qual è il punto di vista e le priorità del neo-ministro per la transizione ecologica, Roberto Cingolani? Alcuni interventi recenti e degli scorsi mesi, formulati prima dell’incarico di governo, permettono di delineare un primo quadro. Non proprio dei più confortanti.
Elemento chiave dell’accordo con il Movimento 5 stelle che ha reso possibile la nascita dell’esecutivo a guida Draghi, il super-ministero “per la transizione ecologica” è stato presentato come la nuova cabina di regia di un’azione di governo che, nelle sue prime dichiarazioni, intende fare della lotta ai cambiamenti climatici un suo tratto qualificante. Lungi dall’essere l’unico attore in campo sui temi ambientali, il super-ministero sarà a capo del futuro “Comitato Interministeriale per il coordinamento delle attività concernenti la transizione ecologica”, proprio perché le questioni relative alla transizione ecologica sono in quanto tali di sistema e coincidono con una visione complessiva del modello di sviluppo del Paese. Occorre chiedersi innanzitutto quale possa essere la filosofia che segnerà il lavoro del nuovo ministero. Un ministero voluto da un governo di “salvezza nazionale” che vede fra i suoi principali azionisti, e in posizioni chiave, forze politiche – come la Lega e Forza Italia – la cui sensibilità sui temi ambientali è stata da lungo tempo, e anche di recente, assai carente.
Un super-ministero con gli (ex) negazionisti climatici?
Solo pochi mesi fa, lo scorso ottobre, i rappresentanti di Forza Italia e della Lega al Parlamento europeo hanno votato compattamente contro la mozione che stabiliva un innalzamento dell’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra al 60% entro il 2030, rispetto all’obiettivo precedente del 40%, schierandosi con quei governi che hanno poi ottenuto in sede di Consiglio europeo a ridurre l’obiettivo al 55%.
Poco da sorprendersi per partiti che non hanno mai messo al centro le questioni ambientali, trovandosi spesso molto più a proprio agio con i negazionisti del cambiamento climatico, come nel caso della Lega. Per questo non può non destare preoccupazioni il fatto che il titolare del Ministero dello Sviluppo Economico - attore chiave nella definizione dei progetti del recovery plan e interlocutore fondamentale nelle politiche ambientali, seppure deprivato delle competenze relative alle politiche energetiche – sia stato affidato a un uomo chiave della Lega come Giancarlo Giorgetti.
Lo stesso Giorgetti che nel 2016, insieme ai suoi colleghi leghisti, aveva presentato al Parlamento un emendamento per togliere i 50 milioni di euro di contributo italiano al Green Climate Fund, nato da un’iniziativa delle Nazioni Unite, per finanziare con 25 milioni «lo svolgimento di ricerche dedicate alla valutazione del rischio di un raffreddamento globale».
Se da una parte, quindi, la compagine del governo Draghi sconta il sostegno di forze politiche che non possono vantare credenziali promettenti quanto ai temi ambientali, alla guida del super-ministero è stato messo un “tecnico”: Roberto Cingolani, professore di Fisica, per … anni a capo dell’istituto italiano di tecnologia voluto da Moratti e Tremonti, più di recente innovation manager di Leonardo (ex Finmeccanica). Appare evidente che una “figura tecnica”, da sola, non potrà in alcun modo evitare che la questione ambientale, a partire dal recovery plan, non finisca al centro della discussione e dei conflitti fra le diverse anime della maggioranza di governo. In ultima analisi la “transizione ecologica” dipenderà dalla capacità del governo di elaborare una visione politica comune e di ampio respiro, le cui premesse appaiono oggi problematiche. Il rischio concreto, dato il quadro delle forze interne al governo, è che si giunga piuttosto a un compromesso di corto respiro fra punti di vista troppo diversi fra loro, rivolto a garantire una spartizione di risorse funzionale alla sopravvivenza dei partiti della maggioranza, in viste della prossima tornata elettorale.
Compito non facile, quindi, quello di Cingolani, che richiederà una visione coerente e ampia delle questioni in ballo nel processo di transizione ecologica. Quale il punto di vista di Cingolani sulle priorità per il suo super-ministero? In attesa di un programma ufficiale, possiamo desumere alcuni aspetti della sua visione da interventi e dichiarazioni ci permettono di averne una prima idea, a cominciare da una serie di brevi contributi rilanciati dalla rubrica Green & Blue di Repubblica, curata dallo stesso Cingolani prima di diventare ministro, sul rapporto fra «sviluppo del progresso» e «costo del progresso», incentrati in gran parte sui temi ambientali, tanto che la testata li ha pubblicati – non senza forzature – presentandoli come le “6 priorità per l’ambiente”. Bisogna notare che, come scrive l’autore, gli articoli non sono “definitivi”, ma “danno comunque delle informazioni utili, se non a completare, almeno ad abbozzare il discorso complessivo”. Qui iniziamo col toccare un elemento della riflessione di neo-ministro, legato a quelli che vengono descritti come i “debiti” del progresso. Nella prossima puntata, vedremo gli altri elementi del Cingolani-pensiero.
I costi del progresso e debiti “truffa”
Dopo aver brevemente ripercorso i tratti essenziali dello sviluppo tecnologico del Sapiens, Cingolani si sofferma sui costi del progresso tecnologico, da punto di vista sociale e ambientale, e sulla sua sostenibilità per la specie umana. Il successo dell’umanità ha generato “tre debiti del progresso, che pesano oggi sulle future prospettive di sopravvivenza di Sapiens, e rischiano di schiacciarlo”. Interessanti appaiono i primi due “debiti” e il riferimento a chi dovrà pagarli. Il primo “debito” sarebbe infatti legato all’aumento dell’aspettativa di vita: con lo sviluppo scientifico e medico, aumenta la popolazione anziana che genera pressioni sui sistemi pensionistici e previdenziali. In un contributo successivo, a proposito dell’espansione e sovraffollamento delle città, Cingolani lega a questo “debito demografico” anche gli alti tassi di natalità più alti dei paesi più poveri.
Secondo il neoministro dell’ambiente: “entrambi questi fenomeni aumentano la pressione di Sapiens sulle risorse del pianeta, minando un equilibrio già compromesso con l’ecosistema. La crescita parallela delle fasce non produttive della società - i piccoli e gli anziani – assorbe, infatti, una quantità crescente di risorse, attraverso l’espansione delle politiche sociali e la diffusione di tecnologie della cura, che hanno un forte impatto ambientale”.
Per quanto Cingolani non sviluppi ulteriormente il ragionamento, pare adombrarsi fra queste righe una preoccupante sorta di neo-malthusianesimo ecologico: quello secondo cui l’aumento della popolazione in sé costituisca la minaccia cruciale per l’ambiente. In questa analisi, seppure concisa, manca infatti qualsiasi problematizzazione del rapporto fra popolazione e risorse nei termini della diseguale distribuzione delle risorse, alla loro estrazione intensiva, e spreco sistematico legata alla logica del profitto propria del modo di produzione capitalistico, e svincolata di per sé dal soddisfacimento dei bisogni della collettività.
Il “debito” demografico da questo punto di vista è soltanto una “truffa” bella e buona: a gravare sulle future generazioni non è in sé l’invecchiamento o l’aumento della popolazione, ma il modo in cui le risorse del pianeta sono concentrate in maniera profondamente asimmetrica e con cui sono sfruttate in una logica consumistica che fa dello spreco delle stesse una condizione essenziale del funzionamento della macchina capitalistica. Il vero debito è quello “ambientale”, il secondo nella lista di Cingolani: ma per capire come tale debito si sia accumulato, e chi ne farà le spese, bisogna guardare non a un indistinto Homo Sapiens, ma al sistema di rapporti sociali ed economici concreto su cui si regge il modello di sviluppo dominante nelle società più industrializzante e in via di industrializzazione.
Per questo la soluzione accennata dal neo-ministro appare del tutto astratta. Cingolani da una parte si riferisce alla necessità di considerare i “costi del progresso” come misura della sostenibilità dello sviluppo tecnologico. In questo senso viene correttamente evidenziato come il PIL rappresenti “una misura semplicista” che in quanto tale “non incorpora il costo dei danni indiretti che possono essere causati dalla crescita industriale o dalle nuove tecnologie digitali”. Secondo Cingolani ciò che serve è una valutazione del rischio (risk assessment) “ragionato del progresso, a livello politico e aziendale, che tenga conto dei problemi di lungo periodo generati dallo sviluppo, e sappia valutare attentamente il rapporto tra costi e opportunità di ogni tecnologia”.
Ci sarebbe da chiedersi innanzitutto in base a quali criteri una simile valutazione andrebbe fatta: ad esempio inquadrando più profondamente la provenienza e natura del “debiti” del progresso e, soprattutto, definendo quegli obiettivi sociali condivisi cui deve mirare il progresso stesso. Migliorare le aspettative di vita della popolazione mondiale, ad esempio, potrebbe essere definito un fine legittimo di giustizia sociale del progresso: cosa che per Cingolani al contrario rappresenta un “debito” che l’umanità dovrebbe estinguere. Prima di ogni “risk assessment” ingegneristico serve infatti la decisione politica su cosa debba essere il bene sociale conseguito grazie al progresso: serve appunto una “visione” della società che non può che essere “politica”.
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