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di Davide Baldi

Come la blockchain «certifica» i dati

Davide Baldi

9 ottobre 2021

Molti dicono che la tecnologia blockchain serve per certificare i dati, è davvero così? Scopriamo meglio come funziona e quali sono i dati che possiamo considerare certificati.

Come la blockchain «certifica» i dati

Si sente spesso dire che la tecnologia blockchain serve per certificare i dati. Si tratta di un concetto corretto, ma solo se adeguatamente inserito nel contesto in cui opera la blockchain.

Infatti per «dato certificato» comunemente si intende un’informazione la cui veridicità è stata verificata ed è garantita da una fonte ritenuta attendibile. Ebbene, questo non è il caso della blockchain. La blockchain non certifica la veridicità di un’informazione, ma è lo stesso in grado di certificare alcuni dati.

Ad esempio chiunque può aggiungere a una transazione blockchain un commento con scritto «1+2=4», ma ovviamente il fatto che questa formula venga registrata su una blockchain non ne certifica affatto la veridicità.

In altre parole è assolutamente possibile registrare sulla blockchain delle informazioni false, ma ve ne sono alcune che invece non possono in alcun modo essere falsificate.

Prima però di elencare quali sono le informazione che è di fatto impossibile falsificare bisogna fare un’importantissima premessa, senza la quale tali certezze semplicemente non esistono.

Con «blockchain» in senso stretto non si intende banalmente un file di informazioni composto da blocchi contatenati (ovvero una «catena di blocchi»), perché un file qualsiasi che contiene una catena di blocchi può essere facilmente manomesso, modificato, falsificato.

Pertanto quando si utilizza la parola «blockchain» ci si riferisce solo a quelle catene di blocchi che sono create, conservate e gestite da reti decentralizzate. Il fatto che siano decentralizzate significa che non esiste nessun singolo operatore in grado di manomettere, modificare o falsificare i dati in essa contenuti, una volta che sono stati registrati.

Le vere blockchain, ovvero quelle decentralizzate, rendono i dati virtualmente immutabili, con la possibilità per ogni singola persona sul pianeta di andare a verificare che non siano stati modificati, eliminati, o sostituiti.

In questo modo ognuno può avere certezza assoluta che i dati che può leggere sulla blockchain pubblica siano esattamente gli stessi che sono stati registrati nel momento in cui sono stati inseriti in un blocco.

Quali sono i dati che possiamo considerare «certificati»? Sono fondamentalmente tre.

  • Il primo, banalmente, è la data di registrazione dei dati. In questo modo è ad esempio possibile avere la certezza che un dato registrato su blockchain in un preciso momento storico.
  • Il secondo è il mittente. Infatti è assolutamente certo, senza alcuna ombra di dubbio, quale sia l’indirizzo che ha inviato alla blockchain i dati da registrare.
  • Il terzo, il più importante, è l’integrità dei dati, perché una volta registrati non possono più essere né modificati, né eliminati, né sostituiti.

Per fare ciò si ricorre a specifici software, appositamente creati, che consentono di applicare la certificazione dei dati su blockchain a diversi ambiti.

Uno di questi software ad esempio si chiama T.R.I.N.C.I., ed è stato sviluppato dall’italiana Affidaty.

Si tratta per l’appunto di un sistema certificato di trasferimento dati in un ambiente decentralizzato e distribuito su un registro certificato. Il software in questo caso permette a chiunque di scrivere applicazioni connesse in blockchain, basate su smart contract, che comunicano tra di loro in modo da creare un registro garantito per ogni tipo di relazione.

Utilizza un’architettura di network ibrida, pubblica e privata, per ottenere vantaggi da entrambe.

Un’altra azienda che utilizza la blockchain per certificare dati in questo modo è E&Y, ex Ernst & Young, che ormai da tempo offre soluzioni varie ai suoi clienti per semplificare e accelerare i processi aziendali, aumentare la sicurezza informatica e ridurre o eliminare i ruoli degli intermediari, oltre che rendere eterni i dati che si vogliono certificare.

In particolare il suo servizio OpsChain aiuta le organizzazioni a eseguire le attività legate alla supply chain smart contract su reti pubbliche, in modo da semplificarne la complessità. Visto che queste attività vengono svolte da diversi operatori, e diverse aziende che utilizzano sistemi di comunicazione differenti, la possibilità di rendere certificati i dati che i vari player si scambiano consente di interagire senza doversi fidare dell’integrità dei dati che vengono scambiati.

Carrefour invece utilizza la blockchain per certificare l’origine e la provenienza dei prodotti, e per tracciarne i passaggi all’interno della supply chain. Purtroppo però pare non utilizzi una blockchain decentralizzata, quindi ci si deve affidare alla loro buona volontà per avere la certezza che i dati che vengono registrati siano quelli originali, e siano sempre rimasti integri.

La certificazione della provenienza dei dati, e della data di registrazione, sono molto utili anche nel campo dell’arte e dei beni di lusso.

Ad esempio il notevole successo degli NFT nel mondo dell’arte viene proprio dal fatto che è possibile verificare pubblicamente, e quindi avere la certezza assoluta, che il creatore di un NFT sia a tutti gli effetti proprio l’autore dell’opera d’arte, o l’intermediario a cui l’artista ne ha affidato la creazione.

Celeberrimo ormai è il caso dell’NFT di Beeple della sua opera d’arte «Everydays: The First 5000 Days», venduto a oltre 69 milioni di dollari, ma di recente persino al Coca Cola ha mette all’asta dei suoi NFT.

Il fatto che un NFT sia costituito da dati registrati su blockchain pubbliche, e che tutti possano verificare con certezza chi ne sia l’autore, ha reso questo utilizzo della tecnologia blockchain ormai molto diffuso.

Davide Baldi

Amministratore e socio di Luxochain, esperto di blockchain

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