Coronavirus: immaginare un futuro migliore, in un presente peggiore del passato
Jacopo Paoletti
30 novembre 2020
Ho riflettuto a lungo su come inaugurare questo mio nuovo spazio su Money.it, e il tema, alla fine, non poteva che essere questo: ciò che tutti stiamo vivendo, e che ha cambiato (e sta cambiando) in modo irreversibile le esistenze di tutti noi per via del Coronavirus.
Probabilmente mai come ora è necessario iniziare ad analizzare in profondità quanto è successo per provare ad immaginare insieme quale potrà essere il nostro futuro, nel suo senso più ampio, proprio come essere umani: cosa abbiamo sbagliato, cosa ci ha portato fin qui, e in particolare cosa c’è da ripensare e quale nuova normalità ci aspetta all’orizzonte: sul fronte sociale, politico, ma soprattutto economico (per quanto sia un aspetto ancora così sottovalutato in questa fase). Come ormai penso sia noto ai più, il COVID-19 ha causato uno shock tre volte maggiore della crisi finanziaria del 2008/2009, crisi da cui l’Occidente non si è mai realmente ripreso (de facto non tornando mai ai livelli precedenti). Soprattutto la nostra Europa (ed in particolare i mercati emergenti) sono stati duramente colpiti sul fronte economico da questo retrovirus; e anche se la Cina alla fine è sfuggita ad una recessione senza precedenti, il Mondo è finito in quella cosa che ormai possiamo definire con il termine depressione. Ma il peggio potrebbe (forse) essere alle nostre spalle, e probabilmente un’economia più verde potrebbe emergere dopo questa pandemia globale. Ma dipenderà da noi: dalle scelte che prenderemo come individui e come collettività. In questo politica, economica e salute sono fattori che si intrecciano.
Una crisi davvero senza precedenti?
C’è da dire che questa è stata in qualche modo una crisi come nessun’altra: abbiamo limitato l’accesso a negozi e scuole, abbiamo chiuso confini e messo circa metà dell’umanità (quasi 4 miliardi di persone!) sotto una qualche forma di blocco in tutto il Mondo, soprattutto durante la primavera del 2020. E sicuramente non è finita, con casi che continuano a crescere pressoché ovunque, mentre il bilancio delle vittime ha purtroppo già superato il milione. Tutto questo ha inevitabilmente precipitato l’economia mondiale in una recessione molto profonda ma fortunatamente (o almeno così pare dagli scenari) relativamente breve. C’è da dire che tutti sono state vittime: non c’è persona, impresa, governo, Paese a non aver avuto impatti e pagato un prezzo salatissimo. Il tutto condito da una combinazione esplosiva di forte paura, profonda incertezza e reazioni più o meno disordinate ai blocchi che si sono ritenuti necessari. Molte persone infatti attribuiscono questa profonda recessione ai lockdown (come ad esempio quello imposto nel nostro Paese), ma personalmente non credo sia una valutazione totalmente corretta. Se guardiamo da esempio ad un Paese nordico come può essere la Svezia (che non ha seguito la strada dei lockdown) la loro economia ha comunque sofferto piuttosto gravemente, perché in realtà sono soprattutto l’incertezza e la paura di contrarre il virus che impediscono ai consumatori di recarsi nei luoghi che normalmente frequenterebbero per fare le loro scelte d’acquisto, e questo sta danneggiando soprattutto economie frammentate come quella italiana, che si sorreggono sulla piccole e media impresa, a rilevanza geografica e di prossimità, e con una forte componente basata sulle esportazioni. In pratica se si ha paura di morire, non si consuma: è molto semplice. E questo non dipende strettamente da un lockdown: salute ed economia sono strettamente collegati, ed oggi è più che mai visibile.
Sfatiamo un mito: non è la Grande Depressione
Se poi analizziamo i precedenti storici, possiamo dire che siamo di fronte ad una crisi circa tre volte più grave dell’ultima (soprattutto se vista in termini di calo del PIL preso su base annua). Sicuramente non è grave come la Grande Depressione della terza decade del Novecento (dove il calo della produzione è durato per circa 3/4 anni e il tasso di disoccupazione è salito al 25% negli Stati Uniti; con il Coronavirus negli USA è infatti salita “solo” al 13%i) ma è senza dubbio la peggiore flessione che si sia avuta a livello globale dagli anni Trenta del secolo scorso. Ma in qualche modo possiamo tirare un sospiro di sollievo, perché il peggio sembra essere davvero passato. In molte parti del Mondo i numeri stanno diminuendo, anche se non ovunque. Salgono in India, crescono in Brasile, ed in realtà non scendono molto negli Stati Uniti. Quindi direi che probabilmente a livello globale, la parte peggiore è dietro di noi. Ma allo stesso tempo possiamo anche dire che solo la parte facile è alle nostre spalle, perché questa cosa divamperà di nuovo e ancora: ecco, non siamo affatto fuori pericolo, e gli impatti economici saranno ancora lunghi e non tutti ancora facili da decifrare e prevedere. Quindi, anche quando pensiamo di aver finito, come hanno erroneamente fatto molti Paesi, dobbiamo sapere che non è così: le esperienze internazionali di molti nostri vicini ce lo dimostrano (la Spagna in testa). Probabilmente non andrà così male come nella nostra precedente battaglia (in parte anche perché i sistemi sanitari si stanno dimostrando più preparati, compreso quello italiano), ma non abbiamo ancora vinto la guerra, questo deve essere chiaro a tutti. E anche se i vaccini fossero davvero alle porte (e non è davvero così), il 2021 avrà strascichi lunghi e profondi di questo 2020: anche se non è facile dobbiamo accettarlo.
La Cina è la prima colpita ma oggi non la più colpita
Ad ogni modo, anche se può sembrare assurdo, tra i Paesi che hanno resistito meglio a questa epidemia globale c’è proprio la Cina, luogo da cui tutto pare sia cominciato (anche se la provenienza di questo virus appare ancora oggi non del tutto chiarita). La Cina infatti non ha avuto tecnicamente una recessione: ha avuto circa un quarto di crescita negativa e poi ne è uscita abbastanza egregiamente, anche se è non un modello politico-economico paragonabile a quelli occidentali, questo è chiaro a qualsiasi osservatore. Ci sono però anche dei Paesi democratici che hanno ottenuto risultati relativamente buoni, come la Corea del Sud e Taiwan, e il motivo è solo uno: molti test e tracciamenti (le famose tre T di cui tanto si è parlato e che poi qui da noi si è realmente fatto, purtroppo), e questo è confermato anche dai dati di Stati Uniti, Brasile e India, che hanno fatto scelte diametralmente opposte a quelle coreane e taiwanesi e che sicuramente stanno andando peggio (ce lo dicono purtroppo il numero totale di morti che ancora si contano). Ma anche i tassi di mortalità, se si osservano su base pro capite, vedono gli Stati Uniti diventare magicamente il numero 10 anziché il primo in questa triste classifica, e comunque dopo Belgio e Spagna, quindi è sempre più chiaro che molto dipende anche dallo condizioni economiche delle singole persone e al livello macroeconomico degli stessi Paesi, che si riflettono anche sui sistemi sanitari di questi e sulle condizioni di vita dei loro cittadini. Detto ciò, in termini di performance economica, l’Europa è stata comunque colpita piuttosto duramente: la recessione europea è infatti un po’ più profonda di quella statunitense, canadese o giapponese, e questo pare ormai evidente anche dagli indicatori.
L’Europa è il vero malato del Mondo
In sintesi quindi l’Europa, insieme ai Paesi emergenti, sono le parti di Mondo che stanno soffrendo di più, e anche i luoghi dove saranno necessari interventi più radicali per tornare almeno alle condizioni precedenti (il Recovery Fund dell’Unione Europea sarà infatti solo uno degli interventi che si renderanno indispensabili, e probabilmente non sarà minimamente sufficiente per come stanno evolvendo le cose, dobbiamo dircelo). Stiamo infatti uscendo da una recessione molto profonda, quindi otterremo in un primo momento quello che in gergo viene definito come un “rimbalzo tecnico”. La crescita, ad esempio, apparirà notevolmente forte in una prima fase, ma poi svanirà molto velocemente. Stiamo cioè osservando quello che viene comunemente chiamato “modello di crescita di rimbalzo” e su scala globale. Ma il rimbalzo è dovuto al fatto che si è andati così in basso che non si poteva non risalire, ma allo stesso tempo questo fenomeno non continuerà al ritmo che vedremo inizialmente. Solo per darvi un’idea: negli Stati Uniti il PIL è sceso del 32% nel secondo trimestre, e si stima che aumenterà del 30% nel terzo trimestre, ma nel quarto trimestre tornerà al 2,5%, e questo trend avverrà un po’ ovunque nelle economie occidentali (saranno solo le scale ad essere diverse, e l’Italia non avrà purtroppo queste percentuali).
Gli effetti lunghi del distanziamento sociale
In tutto ciò è comunque emerso qualcosa di nuovo, conseguente al distanziamento sociale. Questa nostra perdita di innocenza (o se vogliamo definirla più correttamente, direi questa nuova forma di consapevolezza) è anche un nuovo modo di essere in questo mondo, che sarà indispensabile per pensare di poter cambiare il nostro modo di fare nel Mondo. Ora infatti sappiamo che stare con altre persone e respirare la stessa aria in uno spazio chiuso può essere rischioso: le necessarie precauzioni che ci siamo imposti, alimentano anche una possibile psicosi sociale che aleggerà pericolosamente (e a lungo) sul nostro modo di vivere attuale e prossimo, e che avrà profondi e incalcolabili impatti sul nostro senso stesso di società e di economia, aprendo ad un nuovo paradigma della globalizzazione, alla quale c’eravamo tanti abituati per com’era ora e che invece ineluttabilmente cambierà: in un pianeta in cui cadevano i confini, ora il confine è l’essere a noi più prossimo. Anche quando tutto questo finirà (e finirà), la velocità con cui questa sensazione si ritirerà sarà diametralmente diversa per gruppi e persone diverse e dipenderà inevitabilmente da molteplici fattori (fra cui anche lo status economico dei singoli), ma che per forza di cose non potrà mai svanire completamente per chiunque abbia vissuto questo 2020. Potrebbe diventare una nostra nuova seconda pelle, che ci porterà in qualche modo indietro: dopo aver stretto la mano od esserci toccati il viso, potremmo scoprire che non possiamo smettere compulsivamente di lavarci le mani o di coprirci il volto, per usare un’iperbole.
Questa assenza forzata è la nostra nuova presenza
Sta poi avvenendo qualcosa di strano, magari impensabile prima di tutto questo: per quanto possa sembrare un paradosso, sembra quasi che il conforto di essere in presenza di altri individui si sia sostituito con un maggiore conforto dato dalla loro assenza, soprattutto da coloro che non conosciamo così intimamente. Questa separazione forzata sul fronte fisico è stata però anche una nuova forma virtuale di gentrificazione: abbiamo stretto più relazioni remote basandoci di più su interessi comuni, che non si incentrano cioè su una semplice chiave urbana. Stiamo perciò passando dalla classica domanda che ci facevamo in passato: «perché devo fare questa cosa online se posso farla di persona?» ad una nuova domanda: «c’è una ragione valida perché non debba fare questa cosa online?» e in molti casi ci stiamo già dimenticando di com’era farla prima fisicamente (pensate a come facciamo oggi la spesa alimentare online, al food delivery, all’ecommerce, ma anche all’accesso ai servizi pubblici, pure se la nostra PA è chiaramente più a rilento su questo fronte, ma la tendenza è questa anche lì). In tutto questo è chiaro come il digital divide sarà un fattore determinante per non aumentare la forbice sociale su questi si baseranno nuovi architravi sociali: coloro infatti che non hanno (e che non avranno nel breve termine) un facile accesso alla banda larga saranno ulteriormente svantaggiati e il fattore tecnologico diventerà sempre più separante. Oltre a tutto questo, il paradosso della comunicazione online sarà ulteriormente aumentato: è cresciuta la distanza, certo, ma in modo direttamente proporzionale stanno crescendo anche le “connessioni”, poiché comunichiamo più spesso con persone che sono fisicamente e sempre più lontane e che si sentono più sicure con noi e per noi a causa di quella stessa distanza.
Davvero la fine di polarizzazioni e populismi?
C’è inoltre da dire che lo shock straordinario per il nostro sistema ci sta traghettando fuori dall’epoca delle polarizzazioni politiche e culturali (e forse anche dai populismi) in cui siamo stati intrappolati negli ultimi anni (ma potremmo dire ultimi decenni), e questo dovrebbe portarci ad una maggiore solidarietà diffusa. So che l’intero ragionamento potrebbe sembrare idealistico e forse utopico, ma ci sono almeno due macro-ragioni per pensare che ciò possa realmente accadere: la prima motivazione è che il virus ci si è posto davanti come un nemico comune da combattere, e le persone iniziano a guardare oltre le loro differenze quando si trovano di fronte ad una minaccia esterna condivisa. Il COVID-19 si presenta infatti come una formidabile entità a noi opposta, che non fa ad esempio differenza fra gli uni e gli altri: fra etnia, convinzioni politiche e religiose, e potrebbe fornirci un’energia simile ad una fusione verso una vera e propria singolarità di intenti, che potrebbe aiutarci a resettarci, e finalmente a riorganizzarci. Possiamo definirlo come una sorta di “effetto Normandia”, molto simile a quello che portò gli Alleati sulle coste d’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale: negli inglesi si creò un senso di unità e appartenenza contro un nemico esterno che fu riflesso storicamente sulle popolazioni di tutto il continente europeo per almeno una generazione. La seconda ragione è l’onda d’urto politica che potrebbe generarsi: gli shock sociali possono infatti migliorare o peggiorare le cose, ma dati i nostri attuali livelli di tensione, questo scenario suggerisce che ora è il momento di iniziare a promuovere modelli più costruttivi nel nostro discorso culturale e politico; il tempo per un cambiamento sembra perciò arrivato (basti vedere la non rielezione di Trump come primo segno di questo cambio di passo).
La luce al fondo al tunnel chiamata vaccino
Penso quindi che assisteremo a una crescita globale nel terzo/quarto trimestre e in generale nel 2021. Non sarà però un tasso di crescita robusto e molto dipenderà chiaramente dall’arrivo di un vero vaccino. Ovviamente, prima un vaccino sarà disponibile e ampiamente distribuito, maggiori sono le possibilità di crescita, ma a mio parere non lo vedremo davvero fino alla seconda metà del 2021. Un vaccino potrà sicuramente essere sviluppato in questo periodo (fra la fine del 2020 e l’inizio del 2021), ma prima che ne avremo una reale disponibilità capillare ci vorrà sicuramente un po’ di più delle promesse che si sentono in giro nell’ultimo periodo. I nuovi vaccini probabilmente accelereranno solo leggermente questo calendario fino alla fine della pandemia, ma qui è già più difficile fare degli scenari. Negli Stati Uniti ad esempio, la normalità non è probabile che arrivi fino al secondo trimestre del 2021, e l’immunità di gregge non credo ci sarà fino al terzo trimestre, ed è probabile che sarà lo stesso anche per l’Italia. In altre parole, la pandemia non sarà presto sconfitta e le imprese continueranno ad essere messe alla prova ancora nel medio termine. Al momento le attività più colpite restano chiaramente le industrie (o comunque in generale tutte quelle attività che richiedono che grandi gruppi di persone si riuniscano in un luogo specifico); in questo le compagnie aeree ne sono un perfetto esempio (come è ormai noto, i volumi di passeggeri sono infatti diminuiti di due terzi, gli aeroporti si stanno quindi preparando per viaggi contactless ed in generale a soluzioni per migliorare l’esperienza dei passeggeri). Basti pensare che ad oggi il traffico aereo è appena al 25% di quello che era alla fine del 2019 e non si riprenderà davvero per almeno un altro paio d’anni: è brutto dirlo ma sarà così. Gli hotel sono un altro esempio negativo in questo senso, e le navi da crociera sono ancora praticamente vuote. Anche tutto ciò che ha a che fare con conferenze e attività fieristiche è stato duramente colpito, ed è un comparto che vedrà una profonda innovazione con gli eventi virtuali ed in generale con la riorganizzazione di tutto il lavoro nelle forme del remote working (che solo in Italia chiamiamo ancora erroneamente smart working).
Quali sono i nuovi trend post-pandemia?
In generale, per capire quali potranno essere i prossimi trend su cui credere e investire, bisognerà guardare i settori che almeno finora hanno già hanno dimostrato di funzionare bene, e in questo l’alta tecnologia è sicuramente un esempio (si stima infatti che un quinto delle aziende ricava già almeno il 5% dei propri guadagni direttamente e indirettamente da tecnologie affini all’intelligenza artificiale, e tali imprese prevedono già di promuovere i propri investimenti in questa tecnologia che si sta dimostrando ancora promettente; ma si prospetta anche una società con molti meno contanti, e qui fintech, blockchain e criptovalute scriveranno un pezzo della prossima storia). Ovviamente l’effetto più evidente e comune è che tutti ordiniamo dagli ecommerce più blasonati piuttosto che andare nei negozi, ma oltre a ciò sono molti i settori che stanno cercando di accelerare la rivoluzione digitale (leggila anche come digital transformation, open innovation e corporate venture). Ovviamente, ironia della sorte, anche l’assistenza sanitaria sta beneficiando di questa situazione, a causa chiaramente dell’incremento significativo della domanda: la telemedicina è una delle più straordinarie storie di crescita della pandemia (anche se in Italia stenta a decollare per problemi sistemici noti). C’è anche un altro settore che sta vedendo una forte crescita: è quello immobiliare ed edilizio, ma non nel senso che immaginiamo. Fondamentalmente, molte persone stanno fuggendo in periferia (dove per periferia si intende qualsiasi luogo che non siano le grandi città, vedi ad esempio il fenomeno del south working), e questo ci costringerà sempre di più a ripensare i nostri spazi: cos’è l’ufficio, cos’è la casa, e dove vivere al meglio questa nuova normalità. Non sono infatti solo i tempi e i modi a cambiare in modo irreversibile, ma anche i nostri spazi, il che implica un ripensare a tutto tondo le nostre vite. Questa crisi, come tutte le crisi, è perciò anche un’opportunità per ripensare i nostri modelli di sviluppo in chiave finalmente sostenibile. Forse così capiremo anche come ci siamo fatti del male da soli per generare tutto questo: pure se questa pandemia finisse domani, c’è già un altro spettro pronto a suonare alla nostra porta e richiamare anche una volta le nostre coscienze: si chiama global warming. Per quel giorno si spera che per allora avremo imparato finalmente la lezione.
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