Gli esports hanno un problema di razzismo?
Pasquale Borriello
27 novembre 2020
Immaginate il prototipo del giocatore professionale di videogame, di quelli famosi. A chi assomiglia? Maschio, bianco americano e biondo come Ninja? Maschio, bianco americano e moro come Bugha? Oppure Maschio, bianco italiano come Mattiz? Forse abbiamo un problema.
Sembra quasi che gli esports stiano fallendo laddove invece alcuni sport «fisici» avevano avuto successo: permettere a tutti, senza distinzione di sesso, etnia o stato sociale, di diventare ‘qualcuno’. Ma non è una storia recente, già nel 2016 si era capito che qualcosa non andava. Allora un campione di Hearthstone (un gioco di carte della Blizzard), un ragazzo afroamericano, fu pesante oggetto di razzismo durante tornei trasmessi su Twitch. Il ragazzo si chiama Terrence Miller e ha poco più di 9.000 followers su Twitch (Ninja, per dire, ne ha 16 milioni). Eppure è davvero bravo.
Sarà che negli esports c’è competizione, sarà che si tratta di un pubblico di giovanissimi, ma evidentemente c’è qualche problema con il rispetto nei confronti delle altre persone. Addirittura nel 2014 ci fu un episodio, il cosiddetto Gamergate, in cui un gruppo di giocatori “maschi” decise di coalizzarsi per attaccare giocatrici donne e diverse altre protagoniste dell’industria dei videogame. Lo sa bene Brianna Wu che addirittura fu oggetto di minacce di morte e fu perseguitata con attacchi molto pesanti a sfondo sessuale da parte di questa sedicente comunità di videogiocatori. Brianna è ancora una sviluppatrice di videogame e si è perfino candidata alla Camera dei Rappresentanti del Congresso degli Stati Uniti.
Una delle poche ricerche che cerca di indagare sull’etnia del «pubblico» degli esports, pubblicata da ESPN nel 2018, aveva scoperto che circa il 48% del pubblico è «white», contro il 20% di «black» e il 18% di «hispanic». Nessuna sorpresa: è esattamente la distribuzione demografica della popolazione USA e quindi i fan sono equamente distribuiti.
Una ricerca degli stessi anni del Georgia Institute of Technology ha provato a indagare sul comportamento dei videogiocatori afroamericani e sulla necessità di risorse economiche per comprare computer adeguati a giocare in modo professionale per motivare la scarsa rappresentanza delle minoranza negli esports. Ma le ricerche non sono state particolarmente conclusive. Allora, perché così pochi pro player nel mondo sono di colore, o di sesso femminile? Un problema evidentemente c’è, eccome. Ma le cose stanno per fortuna cambiando.
C’è una nuova sensibilità, rispetto agli inizi, in tutta l’industria degli esports: ad esempio durante le recenti proteste BlackLivesMatter moltissimi team esports di fama mondiale e colossi come Blizzard e Twitch si sono schierati dalla parte del movimento. Addirittura moltissimi gamers hanno ricreato le bandiere #BLM sui mondi virtuali di giochi come Animal Crossing.
E in Italia come siamo messi?
Basta vedere le «foto» da copertina delle squadre più famose come Qlash, MKERS, Samsung Morning Stars o Exeed. Per fortuna, anche qui le cose stanno cambiando rapidamente e si stanno aggregando anche nuovi pro-player che rappresentano meglio il variegato insieme di giocatori e pubblico.
Però dev’esserci qualcosa che continua a sfuggirmi. Gli esports non dovrebbero essere inclusivi per definizione? I videogame sono un mondo in cui si è definiti soltanto dal proprio avatar e dal nickname, senza distinzione delle proprie caratteristiche fisiche del mondo reale. Addirittura c’è una forte spinta dell’industria dei videogame per permettere ai portatori di disabilità fisiche di giocare adeguatamente. Chi si ricorda il magnifico spot di XBOX durante il SuperBowl di un paio d’anni fa?
Allora forse il problema è da ricercare nel modo in cui l’industria dell’intrattenimento è entrata nei videogame giocati a livello professionale. I giocatori di esports più forti sono anche streamer o youtuber e lì l’aspetto conta eccome, perché bisogna metterci la faccia oltre che il joypad. Dall’essere preso in giro per come si gioca ad essere attaccati per come si appare fisicamente il passo è purtroppo molto breve.
Tuttavia, mi piace pensare che il futuro sarà più roseo. Ho chiesto a mio figlio di 10 anni se seguisse giocatrici su Fortnite o se alcuni dei suoi idoli tra i pro player avessero la pelle di un colore diverso dalla sua. Mi ha dato una risposta stupenda: “non lo so papà, nel gioco puoi sceglierti la skin che vuoi e puoi essere sia uomo sia donna, conta solo quanto bene sai giocare”. Beata gioventù, evviva i videogame.
Pasquale Borriello
CEO di Arkage, tra le prime agenzie di comunicazione in Italia a credere negli esports come piattaforma di comunicazione e membro dell’Osservatorio Italiano Esports.
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