The Advisor

The Advisor

di Jacopo Paoletti

Ecosistema startup italiane, quanta strada c’è da fare? Ne parliamo con Augusto Coppola

Jacopo Paoletti

6 febbraio 2025

Seppur piena di talenti, l’Italia ancora viaggia a marcia ridotta nel mondo delle startup. Ne parliamo con Augusto Coppola, pioniere di questo importante ecosistema.

Ecosistema startup italiane, quanta strada c'è da fare? Ne parliamo con Augusto Coppola

Se oggi l’Italia può contare su un ecosistema startup che inizia a trovare la sua strada a livello internazionale, una parte importante del merito va a chi ha creduto nel suo potenziale quando ancora non esisteva nemmeno una definizione chiara di “ecosistema”.

Augusto Coppola è uno di quei pionieri che, con visione e pragmatismo, ha costruito fondamenta solide su cui imprenditori, investitori e innovatori italiani hanno potuto crescere.

Innovaction Lab, il programma che co-fondato ormai più di 10 anni fa, è stato molto più di un’iniziativa formativa: è stata la scintilla che ha acceso un nuovo modo di fare impresa tecnologica in Italia, sfidando giovani aspiranti founder a misurarsi con standard internazionali.

Per molti di noi della prima generazione di imprenditori digitali italiani, Innovaction Lab è stato il primo passo, una scuola di pensiero e azione che ha lasciato un’impronta indelebile. E la verità è che molte delle persone che c’erano allora hanno fatto strada, a dimostrazione di quanto possano essere importanti iniziative del genere.

Ma il contributo di Augusto non si è fermato qui. Come Managing Director di LUISS EnLabs (oggi all’interno di Zest, dopo la fusione fra LVenture e Digital Magics), ha messo in pratica la sua visione di un acceleratore capace di portare startup italiane a competere su scala globale, offrendo non solo risorse, ma un metodo. La sua capacità di combinare pragmatismo e ambizione ha aiutato decine di team a navigare le sfide del venture capital, dell’internazionalizzazione e della costruzione di aziende scalabili.

Oggi Augusto guida Cloud Accelerator, un veicolo di investimento specializzato in startup pre-seed (co-fondato insieme a Michele Cermele e Mario Venezia), ed è consulente per molte aziende, istituzioni e investitori sui temi della ’No Bullshit Innovation”, oltre ovviamente a ricoprire ruoli strategici in progetti come Entopan Innovation o il Future Founder Program di Bocconi 4 Innovation, continuando così a plasmare il futuro dell’innovazione italiana. Ma accanto a questo c’è anche l’Augusto che insegna, con lo stesso entusiasmo, ai giovani imprenditori l’importanza di un team coeso, di una strategia solida e, soprattutto, di un rapporto sano con il fallimento, che giustamente anche lui considera una tappa inevitabile – e preziosa – del successo.

Con lui non si parla solo di startup, ma di come costruire un’idea, un’impresa e un sistema che abbiano impatto reale. Augusto è sempre stato uno che va dritto al punto: che si tratti di discutere di open innovation, del valore della disciplina in un team o delle sfide strutturali del venture capital italiano, non si perde mai in giri di parole. E forse è questo che lo rende così credibile e rispettato: la capacità di dire le cose come stanno, senza fronzoli, e di mettersi in gioco in prima persona.

Questa intervista non vuole solo raccontare ciò che ha fatto, ma capire chi è davvero Augusto Coppola: la persona dietro l’esperto che ha contribuito a costruire l’ossatura del nostro ecosistema startup. È una conversazione per scoprire come si vede oggi, dopo anni in prima linea, e cosa pensa serva per affrontare le sfide che il futuro ci riserva.

D: Se dovessi raccontare la tua carriera a un giovane imprenditore che ha appena fallito con la sua prima startup, quale singola lezione vorresti che portasse con sé dal tuo percorso?

R: Fallire è, statisticamente, la cosa più probabile ogni volta che proviamo a lanciare un nuovo prodotto. Semplificando al massimo diciamo che più o meno l’80% dei nuovi prodotti che vengono lanciati sul mercato sono un fallimento, per cui la prima lezione è “non cadere in depressione, è normale”. Il fatto che sia normale non significa però che sia bello, non lo è per nulla, ma solo che si tratta di un’esperienza assolutamente comune e che l’unico modo per renderla fruttuosa è quello di non piangersi addosso e capire quali errori abbiamo commesso. Noi, non gli altri.

Tutte le volte che sento qualcuno asserire “sì, è vero, ho sbagliato, ma…” e dopo quel “ma” scopro che i clienti sono stupidi, il mercato è corrotto, gli investitori non capiscono nulla allora realizzo che chi sta parlando non ha imparato nulla. Ecco, in quel caso il fallimento è una vera e propria catastrofe.

D: L’Italia è piena di talento e creatività, ma spesso fatichiamo a emergere a livello globale. Qual è la chiave per trasformare il nostro talento in leadership internazionale? Dove sbagliamo e come possiamo correggerlo?

R: Il nostro è un Paese che, per tanti motivi, ha un mercato quasi statico, cioè un mercato che non ha praticamente mai repentini cambiamenti, le cose accadono lentamente, diluite nel tempo, dando a molti la sensazione che non abbia poi molto senso effettuare delle innovazioni. Faccio un esempio: il personale di filiale di un’importante banca gestisce una serie di pratiche a mano, con inevitabili ritardi, errori e demotivazione degli impiegati.

Proponiamo una soluzione che dimostra, a un costo efficace, di abbattere tempi ed errori, facendo in modo che ogni filiale possa gestire il triplo delle richieste. Risposta: ma intanto in filiale sempre quelle persone entrano, per cui non ha alcun senso triplicare la produttività. Ogni tanto qualcuno parte al grido di “ragazzi, andiamo a prenderci il mercato!”, ma sino a quando questo qualcuno rimane parte di una sparuta minoranza, avremo sempre un fattore di compressione del talento.

D: Spesso si dice che il venture capital italiano è “timido” rispetto a quello americano o cinese. È solo una questione di cultura del rischio, o ci sono altre barriere strutturali? Cosa servirebbe davvero per far decollare gli investimenti sulle startup in Italia?

R: In Italia la quantità di soldi investiti in startup è ancora molto bassa, non solo rispetto a USA e Cina, ovviamente inarrivabili, ma anche rispetto a praticamente tutti i paesi europei. Se infatti guardiamo il rapporto tra investimenti e PIL vedremo che l’Italia non solo è dietro Spagna, Francia, Germania, Regno Unito, Svezia, Svizzera, Olanda e Danimarca, che ci sono superiori anche per semplice valore assoluto degli investimenti, ma anche rispetto a paesi come Norvegia, Irlanda, Belgio, Turchia, Finlandia, Austria e così via.

Di fatto in Italia non si investe in startup. In un contesto come questo è inevitabile che il venture capital tenda a essere conservativo, sia per mancanza di concorrenza, sia per la difficoltà nella raccolta, che, visto il tipo di mercato domestico, per i valori relativamente bassi delle exit. Esiste poi un problema di gestione dei fondi, soprattutto nell’early stage quando gli aspetti intangibili, come team e visione del mercato, hanno un ruolo preponderante rispetto al resto, che in quella fase non è ancora sviluppato.

Se un fondo si focalizza sull’early stage, sarebbe bene che chi lo gestisce abbia esperienza di prima mano delle dinamiche delle startup early stage, ma non sempre questo è vero, per cui abbiamo fondi che sembrano gestiti con criteri del buon padre di famiglia, ma questo criterio non funziona nel venture capital early stage.

Qualcosa sta cambiando, e anche in Italia, malgrado le apparenze, iniziano ad esserci startup che hanno avuto successo e accade che i founder di quelle startup iniziano a mettersi insieme per dare una mano: lo vedo come un segnale di grande importanza.

E’ proprio per questo che sono tanti anni che dico che il modo vero per sviluppare il comparto startup in Italia non è mettere più soldi nelle startup, ma mettere più soldi nei fondi (possibilmente che abbiano almeno un founder di startup vera nel team di gestione) e, ancora più importante, incentivare le exit, per esempio attraverso una serie di vantaggi fiscali rilevanti per chi le effettua.

D: Hai definito l’open innovation, così come viene fatta oggi, una sorta di “giostra” che rischia di non portare risultati concreti. Se avessi il compito di scrivere il manifesto dell’open innovation per le grandi aziende, quali sarebbero i tre principi fondamentali?

R: Lo scopo principale delle aziende non è fare innovazione, ma servire in modo efficiente i clienti che hanno oggi. Questo comporta che chi lavora in aziende tradizionali, anche le più innovative, in genere ha una cultura che è orientata all’oggi e al processo. Ed è assolutamente giusto che sia così.

D’altra parte chi vuol fare open innovation con le startup deve:

  • capire come funzionano le startup,
  • capire come funziona l’innovazione
  • essere sicuro che ci sia un chiaro commitment del management.

Nelle aziende, per i motivi precedentemente accennati, la stragrande maggioranza delle persone non capisce nulla di startup, capisce ancor meno di innovazione e pesso mette in piedi delle iniziative che in nessun modo vedono un vero coinvolgimento dell’azienda.

Il dramma del mondo dell’innovazione basata su startup in Italia non è che la stragrande maggioranza delle persone non ne capisce nulla, questo è assolutamente normale in tutto il mondo, ma il fatto che pensano di capirci facendo più danni della grandine.

D: Hai sempre sottolineato il valore del fallimento come strumento di apprendimento. C’è un errore specifico che hai commesso nella tua carriera e che oggi vedi come uno dei momenti più importanti del tuo percorso?

R: Come accennavo prima, il fallimento deve essere uno strumento di apprendimento, altrimenti è solo il male assoluto.

Di errori ne ho commessi molti, ma uno particolarmente subdolo è stato quello di farmi accarezzare l’ego da quello che le mie controparti dicevano (semplificando: “wow, che prodotto eccezionale! D’altra parte non poteva essere diverso con un team pazzesco come il vostro”) e non guardare a quello che le stesse controparti facevano (non compravano).

Nel confronto con un potenziale cliente o investitore, solo 2 cose sono importati: alla fine vi danno dei soldi oppure vi dicono nel modo più chiaro e diretto possibile perché non vi danno i soldi. Tutto il resto è, per citare la Bibbia, vanità e fame di vento.

D: Le startup non sono solo tecnologia, ma persone. Come riconosci un leader capace di guidare un team attraverso crisi e cambiamenti? C’è una qualità che trovi sottovalutata ma cruciale nella leadership imprenditoriale?

R: C’è un gioco che faccio da anni durante le mie presentazioni sul team che, più o meno, consiste nel chiedere all’audience di dirmi una qualità che da sola può funzionare da indicatore per un buon leader in ambito imprenditoriale. Le risposte sono sempre le stesse: visione, capacità, empatia, coraggio, passione e così via. Una volta raccolte le risposte verifico quanti in aula ne hanno almeno una e scopro sempre che praticamente tutti ne hanno almeno 7/8, per cui mi trovo in un’aula piena di futuri Jeff Bezos.

Il motivo per cui questo gioco funziona da anni è che tutte le qualità indicate sono sexy, per cui tutti, nel fondo del nostro cuore, riteniamo di averne una parte significativa. Ma la qualità che a me sembra serva più di tutte è un’altra che sexy non è: la disciplina, ovvero la capacità di fare quello che va fatto, quando va fatto, nel modo in cui va fatto, anche quando non ci piace farlo.

Se dovessi indicare una seconda qualità indicherei una visione etica del proprio ruolo, a me piacciono gli imprenditori che non stanno solamente cercando una forma di realizzazione personale, ma si impegnano anche per lasciare un posto migliore di quello che hanno trovato.

D: Se dovessi immaginare come verrai ricordato fra dieci o vent’anni, qual è l’impatto che speri di aver avuto sul mondo dell’innovazione e dell’imprenditorialità?

R: Mi piacerebbe essere ricordato con affetto, come uno che ha fatto quanto in suo potere per dare una mano nei limiti delle sue possibilità, senza egoismi.

Jacopo Paoletti

Marketer, Manager, Entrepreneur, Advisor.

Altri blog

Terzo Millennio

Terzo Millennio

Di Pierpaolo Bombardieri

BCFormula®

BCFormula®

Di Mauro Finiguerra e Lara Zampini e Alberto Michelis e BCFormula

Finanza Sostenibile

Finanza Sostenibile

Di Giuseppe Montalbano