The Advisor

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di Jacopo Paoletti

Riccardo Puglisi, Italia ed Europa senza crescita? Il problema è la produttività, non la narrazione

Jacopo Paoletti

19 marzo 2025

Un dialogo con Riccardo Puglisi sui nodi cruciali dell’attualità tra AI, finanza e geopolitica.

Riccardo Puglisi, Italia ed Europa senza crescita? Il problema è la produttività, non la narrazione

Se segui il dibattito economico in Italia, è impossibile che tu non abbia mai incrociato Riccardo Puglisi. Non è uno di quegli accademici che restano chiusi nelle aule universitarie: la sua voce è ovunque. Lo trovi sulle pagine delle principali testate economiche, nei paper scientifici, nei dibattiti televisivi (ora molto meno di prima, se leggi sotto avrai qualche spiegazione del perché), e soprattutto sui social, dove da anni smonta luoghi comuni con una combinazione di dati, ironia e provocazioni ben calibrate.

Puglisi è professore ordinario di Scienza delle Finanze all’Università di Pavia, dove ha studiato prima di perfezionarsi con un PhD alla London School of Economics. Il suo lavoro di ricerca si muove lungo un asse preciso: il rapporto tra economia, politica e media. Ha scritto su come i giornali influenzano il dibattito economico, su come la politica fiscale incide sulla crescita e su come le scelte economiche vengono raccontate (o manipolate) dalla comunicazione pubblica. Ha lavorato con Carlo Cottarelli alla spending review, vedendo dall’interno i problemi strutturali della finanza pubblica italiana, ed è uno dei pochi economisti che riesce a spiegare concetti complessi senza perdere rigore.

Lo seguo e lo stimo da anni, e ho avuto anche modo di incontrarlo di persona in contesti di discussione pubblica, come uno dei primi eventi di Parole O Stili, quando il problema della tossicità del dibattito online era ancora poco esplorato. Quella conversazione mi ha confermato ciò che già pensavo: Puglisi è uno di quegli studiosi che non si limitano a osservare i fenomeni, ma li vivono e li raccontano con un punto di vista originale, senza paura di prendere posizioni scomode.

Questa intervista nasce proprio con l’idea di andare oltre le solite domande e costruire un confronto vero, che tocchi i nodi fondamentali dell’economia e della politica globale: il futuro dell’Italia tra Europa, USA e Cina, l’impatto della rielezione di Trump, il rischio di una bolla finanziaria sull’intelligenza artificiale, la stagnazione economica europea, il nodo mai risolto della meritocrazia. E, come sempre quando si parla con Riccardo Puglisi, il tutto senza retorica e senza giri di parole.

D: Sei un economista, un accademico, un analista attento ai fenomeni economici e politici. Come definiresti lo stato di salute politico-economico in Italia, in Europa, e in generale nell’Occidente oggi?

R: Si comincia con domande toste! Partirei dalla premessa che l’Italia e l’Europa fanno parte da tempo dei paesi sviluppati, quindi ogni lamentela eccessiva è mal riposta. Procedo con ordine, schematicamente: l’Italia piacevolmente beneficia di un’alternanza politica tra alleanze dalla posizione ideologica diversa, per cui non ci si può che rallegrare per il funzionamento adeguato di una democrazia liberale. Sotto il profilo economico, pur con conti pubblici tenuti a posto –compatibilmente con l’orrido Super Bonus inventato dal Governo Conte 2 e mantenuto dal governo Draghi- dobbiamo sempre porre mente al tasso estremamente basso di crescita della produttività, il quale ha come conseguenza un tasso di crescita dell’economia (il PIL reale) altrettanto basso.

Per quanto concerne l’Europa, e in particolare l’Unione Europea, la sua natura mista tra confederazione e federazione non le fa bene, la rende meno incisiva, e il giudizio che ne abbiamo in Italia (e non solo) sconta questa ambiguità istituzionale e nel contempo la scelta di un’agenda politico-economica troppo incentrata sulla transizione ecologica e troppo poco sulla crescita della produttività. La dico meglio: se riteniamo che la transizione ecologica faccia bene all’andamento della produttività economica dell’area, ciò deve essere dimostrato e spiegato. Altrimenti non andiamo molto lontano. Per quanto riguarda l’Occidente, alla faccia di Edward Said e di chi vuole –anche per ragioni ideologiche e geopolitiche- farlo sentire perennemente in colpa per i mali di tutto il Mondo, ritengo che sia arrivato da tempo il momento di respingere al mittente il fraudolento invito alla colpa eterna.

D: Hai studiato l’interazione tra economia, politica e media. Quanto pensi che oggi i media condizionino le scelte economiche e politiche rispetto al passato? E quanto invece sono condizionati dal potere politico ed economico?

R: Finalmente qualcuno che mi chiede qualcosa sulla mia principale attività di ricerca, cioè il ruolo politico dei mass media: quindi inizio rispondendo in maniera del tutto sincera “grazie per la bella domanda!”

Sono convinto da almeno 20 anni che il principale effetto politico dei mass media consista nell’influenzare le priorità dei cittadini (talora persino dei parlamenti e dei governi), cioè la loro valutazione in tempo reale intorno a quali problemi –e quali sottoproblemi- siano rilevanti, e quali no: Economia? Criminalità? Pandemia? Geopolitica?

La risposta sarà deludente ma dall’altro lato è piuttosto probabile che i mass media siano influenzati dal potere economico, direttamente se essi sono posseduti da cosiddetti “editori impuri” che hanno altre imprese, e indirettamente dagli inserzionisti pubblicitari che sono ancora più rilevanti in una fase di vendite calanti (soprattutto per giornali cartacei) e non esaltanti (giornali digitali) e sono strutturalmente cruciali per i media gratuiti come la TV generalista. Anche il potere politico ha un’influenza sui mass media perché è la fonte principale di notizie su se stesso, e talora su quanto accade fuori dal singolo paese. Il governo può anche regolamentare il settore o direttamente possedere canali mediatici, tipicamente televisioni (pensiamo a RAI e BBC, ad esempio).

D: Siamo in piena era digitale, ma la polarizzazione del dibattito economico e politico sembra aumentare. Credi che i social media abbiano migliorato o peggiorato la qualità dell’informazione economica? Se domani Elon Musk decidesse di bannarti da X (ex Twitter), dove andresti a fare divulgazione?

R: Sì, c’è molta polarizzazione, soprattutto di carattere politico e di tipo affettivo (cioè crescono le valutazioni negative che diamo del partito politico che non sosteniamo) e sono convinto che ciò non faccia bene al funzionamento delle democrazie liberali, perché c’è meno terreno comune su cui convergere (politiche condivise) e si accettano “brutte cose” dalla nostra parte politica preferita perché abbiamo troppo in odio la parte avversa. Credo che la polarizzazione politica abbia largamente origine presso i politici, e i mass media tradizionali –che fanno parte anch’essi dell’elite di un certo paese- hanno dato il loro buon contributo su ciò. E il contributo dei social media va esattamente nella stessa direzione, quindi vale il detto di De André per cui nessuno può “credersi assolto” ma è “coinvolto”.

D’altro canto ho molta simpatia per il concetto della concorrenza, quindi un aspetto interessante del quadro attuale è che per l’appunto mass media tradizionali, internet e social network non necessariamente colludono e dunque la concorrenza può portare all’emergere di notizie al fine di arrivare prima degli altri. Quindi ciò dovrebbe fare bene allo stato dell’informazione, anche in campo economico e finanziario. Il rischio che vedo è piuttosto un altro: che, alla stregua di quanto insegnato decenni fa da Herman e Chomsky nel loro libro sui mass media (“La Fabbrica del Consenso”), i mass media tradizionali facciano gate keeping, cioè controllino l’accesso alle notizie sgradite, per cui cattive notizie su una certa impresa o su una certa posizione politica impieghino mesi se non ANNI per comparire anche lì, quando sui social network come X/Twitter se ne parla per l’appunto da molto tempo prima.

Io uso molto X/Twitter, ma se fossi da lì bannato (evento estremamente improbabile, direi 1 possibilità su mille) lavorerei di più su LinkedIn, Instagram e aprirei un canale video su YouTube.

D: In Italia si parla sempre di crescita, ma da decenni restiamo fermi. Se ti dessero carta bianca per disegnare il piano economico perfetto per il Paese, quali sarebbero le tre riforme non negoziabili che attueresti subito?

R: Ti correggo: in Italia non si parla abbastanza di crescita economica, e insieme della sua radice sottostante, cioè la crescita della produttività. Non so se sarei in grado di proporre riforme non negoziabili, ma offrirei approcci non negoziabili:

1) avviare una revisione della spesa pubblica seria, che identifica aree meritevoli protette ma si basi comunque su un meccanismo rigoroso di misurazione dei soldi spesi e dei risultati ottenuti: che cosa ottengono i pagatori di tasse per le spese da loro finanziate?

2) per quanto possibile minimizzerei l’incertezza relativa all’andamento futuro della tassazione: scelte di lungo periodo come gli investimenti in macchinari da parte delle imprese e di immobili da parte delle famiglie sono messe a dura prova da una continua faticosa incertezza su quante imposte pagheremo l’anno prossimo.

3) da liberale prenderei comunque molto sul serio le proposte di economisti insigni come Piketty e Zucman sulla tassazione della ricchezza finanziaria globale, spesso schermata tramite trust, fondazioni alle Isole Vergini Britanniche, Anstalt e quant’altro. Sottolineo per bene: ricchezza finanziaria, non ricchezza immobiliare tartassata senza molte scuse a partire dall’IMU.

D: Trump ha vinto le elezioni per un secondo mandato, l’Europa è sempre più divisa e l’economia globale è sotto pressione. Dove vedi l’Italia tra cinque anni? Saremo ancora a discutere di debito pubblico e crescita zero o possiamo aspettarci qualcosa di meglio?

R: Nessuno dovrebbe stupirsi del fatto che il quadro politico ed economico sia in movimento, e –come insegna il mio amico e collega Marco Clementi- i periodi egemonici non durano molto. Per quanto concerne l’Italia, il rigore insito nelle riforme pensionistiche Dini, Maroni e Fornero rendono più agevole il percorso della finanza pubblica nei prossimi decenni. Un debito pubblico elevato comporta sempre dei rischi non nulli, ma sono piuttosto ottimista sul fatto che la crescita economica italiana possa essere più forte, e ciò è tanto più vero quanto più il dibattito pubblico e quello politico si incentreranno sul tema della produttività piuttosto che su altro.

D: Parliamo di intelligenza artificiale e finanza: credi che sul tema AI sia in corso una bolla finanziaria come molti sostengono? Quanto è rischioso affidarsi ad algoritmi per prendere decisioni economiche e politiche? Pensi che un giorno potremmo avere un Ministro dell’Economia AI, o è fantascienza?

R: Dopo una breva fase di iniziale scetticismo, io sono un grande fan della cosiddetta Intelligenza Artificiale Generativa e dei Large Language Models (LLM) come ChatGPT, che uso in maniera estensiva e che hanno aumentato di molto la mia produttività. Se anche ci fosse una bolla finanziaria di breve termine sulle società attive nel settore, ritengo precisamente che nel medio-lungo termine l’IA generativa diventerà un attrezzo normale nella vita di tutti i giorni, come il computer ed internet. NON SI TORNA INDIETRO. Sì, ci sono dei rischi, ma chi ha cominciato a usare gli LLM in maniera saggia sa che ad essi devi delegare compiti che sapresti già fare in prima persona, ma che semplicemente l’IA generativa fa molto più velocemente di te. (Ringrazio Nicola Rossi per avermi suggerito questo modo di pensare sulla questione!) Ci facciamo aiutare dagli LLM, anche un ministro dell’economia può farlo, ma l’ultima parola resta agli esseri umani, che questi strumenti hanno creato e che questi strumenti utilizzano.

D: MES, BCE, debito, spread: termini che per molti italiani restano astratti. Perché ad esempio il Meccanismo Europeo di Stabilità è così importante e quali sarebbero le conseguenze di una reale mancata ratifica da parte dell’Italia?

R: Istituzioni e concetti economico-finanziari restano purtroppo astratti e lontani per molti nostri concittadini banalmente perché l’ammontare di istruzione finanziaria a cui siamo esposti nei nostri studi (a meno di avere studiato ragioneria alle scuole superiori e/o economia all’università) è vergognosamente basso. Per quanto concerne il MES, la risposta più immediata è questa: un’unione monetaria come l’eurozona non ha soltanto bisogno del ruolo giocato dalla banca centrale, anche attraverso l’acquisto di titoli di stato ma anche di meccanismi fiscali di gestione delle emergenze, per paesi che hanno più difficoltà a piazzare il proprio debito pubblico. Per meccanismi fiscali intendo meccanismi finanziati dalle imposte e dal deficit, anche a livello federale. Le opposizioni al MES mi sembrano francamente eccessive.

D: Meritocrazia in Italia: mito o realtà? Sei d’accordo con chi dice che il sistema premia sempre i soliti noti e lascia indietro chi meriterebbe davvero? Tu stesso, nel tuo percorso accademico e professionale, hai mai dovuto combattere con un sistema chiuso?

R: È spiacevole trovarsi in situazioni in cui il proprio merito non venga adeguatamente premiato, anche se pure qui starei attento ad eccedere nelle lamentazioni. Il merito personale, tenendo altresì conto dell’effetto aleatorio della “fortuna”, è composto dalla propria abilità innata e dal proprio impegno, che permette di capitalizzare su tali abilità rendendole più forti e più adatte alle circostanze.

Da scienziato sociale dico che per comprendere il ruolo relativo del merito e delle connessioni inefficienti, quelle che io chiamo “cricchette”, bisognerebbe raccogliere dati microeconomici sufficienti per evidenziare le determinanti del successo degli individui, badando ovviamente a variabili omesse che non dobbiamo trascurare: ad esempio una persona molto intelligente potrebbe dedicare molto tempo alla famiglia oppure alla lettura oppure a un hobby, quindi ha meno energie e meno tempo da spendere nella propria carriera.

Se i risultati ottenuti lì sono bassi, sarebbe sciocco attribuire con probabilità uno la responsabilità alle “cricchette” che ti bloccano: forse stai dedicando le tue energie ad altro, e quindi questa potrebbe essere la ragione principale per un merito che non vedi premiato. Semplicemente le tue energie stanno altrove e ottieni ciò che meriti in queste altre aree.

Sono molto soddisfatto della mia vita professionale (tenendo conto del fatto che non ho dedicato le mie energie soltanto a quella) e sono ben conscio di piccoli o medio/grandi errori che ho commesso, e del tempo che ho usato in maniera non efficiente: quindi ritengo che ci sia sempre molto spazio per migliorare, anche grazie all’esperienza precedente. Le resistenze che ho incontrato non sono state fortissime, dato l’impegno da me messo, e in momenti rilevanti della mia carriera mi è capitato di essere più intelligente e più produttivo rispetto a chi potesse avere avuto l’idea di non facilitarla.

D: Il mondo è attraversato da un riequilibrio geopolitico tra USA, Europa e Cina, con un ruolo crescente della Russia, dei BRICS e del Sud Globale. Quale pensi sarà l’impatto economico di questa ridefinizione degli equilibri internazionali? L’Europa può ancora giocare un ruolo da protagonista o rischia di restare marginale?

R: Non sono un esperto di geopolitica ma –come accennavo sopra- le fasi di egemonia completa di un certo paese esistono ma non sono lunghissime e non sono totalitarie. Potrebbe essere non carino pensarlo, ma credo che il concetto di “aree di influenza” non vada disprezzato, perché è capace di spiegare i comportamenti dei paesi, anche se abbiamo un giudizio morale basso di tali comportamenti.

Sono fondamentalmente un ottimista sul destino degli esseri umani, dunque ritengo che le guerre commerciali, insieme con le guerre reali che infinitamente peggio, abbiano una durata limitata, fortunatamente. Il principio del vantaggio comparato di David Ricardo spinge nel medio/lungo termine le nazioni a commerciare tra di loro, evitando le rincorse ai dazi che stiamo vedendo oggi con la Presidenza Trump, e che peraltro avevamo già visto sotto la Presidenza Biden e sotto la prima presidenza Trump.

Per quanto concerne l’Unione Europea credo che essa avrà un ruolo più rilevante quando permetterà strutturalmente la creazione di sottogruppi a velocità diversa, cioè un nucleo duro di paesi che sia disposto a passare da una confederazione a una federazione vera e propria. Ma sinceramente non so quando ciò accadrà.

D: Nel 2013 hai collaborato con Carlo Cottarelli per la spending review, che purtroppo non ha avuto il concreto seguito che meritava. Guardando oggi ai conti pubblici italiani, quali lezioni avremmo dovuto imparare allora e cosa dovrebbe essere fatto ora oggi?

R: In Italia usiamo il termine “denaro dei contribuenti” mentre io invece ritengo che si debba imitare gli anglosassoni e usare il termine “denaro dei pagatori di tasse”, soprattutto quando si pensa all’utilizzo di questo denaro per finanziare spesa pubblica potenzialmente inefficiente, “sprecata”. E c’è un tema connesso che deve essere analizzato molto più profondamente, evitando censure ideologiche: in che misura l’evasione fiscale è di fatto incentivata a motivo dell’inefficienza della spesa pubblica finanziata dalla tassazione?

Una revisione della spesa rigorosa e ben basata sulla misurazione degli output ottenuti da ogni denaro speso sarebbe sacrosanta in Italia come in ogni altro paese. La volontà politica di implementarla sarebbe a mio parere molto più robusta se si badasse al fatto che l’ampio gruppo dei pagatori di tasse che finanzia la spesa è tipicamente composto –sorpresa, sorpresa!- dagli elettori.