The Advisor

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di Jacopo Paoletti

Stefano Quintarelli, un nuovo umanesimo per l’era digitale

Jacopo Paoletti

13 gennaio 2025

Pioniere dell’era digitale in Italia, Stefano Quintarelli è una figura poliedrica e visionaria che ha attraversato i confini tra innovazione tecnologica, imprenditoria, accademia e politica.

Stefano Quintarelli, un nuovo umanesimo per l'era digitale

Nato a Negrar, a Verona, nel 1965, Quintarelli ha contribuito alla nascita e allo sviluppo di Internet in Italia. Ha fondato nel 1994 I.NET, lo stesso anno in cui è nata Amazon, il primo Internet Service Provider commerciale orientato al mercato professionale, nonché primo vero unicorno italiano, che segnò una svolta cruciale nella diffusione della rete in Italia, e in cui nacque anche il Milan Internet Exchange (MIX), ancora oggi il principale nodo del traffico dati nel nostro Paese e verso il resto del Mondo.

Accademico di formazione, laureato in Scienze dell’Informazione presso l’Università degli Studi di Milano, dove da studente fondò MI.NE.R.S, la prima rete telematica studentesca italiana, che realizzò anche la prima rete indipendente di posta elettronica in Italia e il primo sistema telematico per l’iscrizione a esami universitari: nel 1989. Discepolo del noto informatico italiano Gianni Degli Antoni oltre che discendente da parte di madre dello scrittore Emilio Salgari, ha unito una solida base teorica alla capacità di tradurre la visione in realtà, anche grazie alla fiducia di figure come Roberto Galimberti di Etnoteam, che insieme a personaggi come Elserino Piol hanno fatto la storia di Internet in Italia.

Negli anni, il “Quinta” (così lo chiamano alcuni di noi) ha alternato il ruolo di innovatore a quello di legislatore, servendo come deputato indipendente nella XVII legislatura del Parlamento italiano, dove ha fondato l’Intergruppo parlamentare per l’innovazione tecnologica e ha contribuito all’elaborazione di normative sulla neutralità della rete e l’identità digitale. Come Presidente del Comitato di Indirizzo dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), ha diretto l’implementazione del codice dell’amministrazione digitale, gettando le basi per una modernizzazione della pubblica amministrazione italiana.

Tra i suoi contributi accademici e pubblicazioni, spiccano i libri “Internet fatta a pezzi”, “Intelligenza artificiale” e “Capitalismo immateriale”, che esplorano le dinamiche di potere nell’economia digitale, analizzando anche il conflitto tra piattaforme tecnologiche e utenti. Questo tema, insieme al concetto di “neutralità dei dispositivi” da lui teorizzato, testimonia il suo impegno per una tecnologia inclusiva, equa e sostenibile. Quintarelli ha anche giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo dello SPID, il Sistema Pubblico di Identità Digitale italiano, di cui è l’ideatore, è che è stato un vero punto svolta nei rapporti fra cittadini e PA in Italia. A dicembre 2023, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, lo ha nominato motu proprio Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana per il contributo dato allo sviluppo dell’innovazione del Paese.

Oggi, Stefano Quintarelli continua a essere una delle voci più influenti nel dibattito sulle tecnologie emergenti, dalla sovranità digitale all’intelligenza artificiale (è stato uno degli esperti di alto livello della Commissione Europea), ponendo al centro della sua visione un equilibrio tra innovazione ed etica. La sua capacità di anticipare le sfide del futuro lo ha reso un punto di riferimento internazionale per chiunque voglia comprendere le trasformazioni dell’ecosistema digitale e il loro impatto su economia, politica e società.

Questa intervista non è solo un dialogo con uno dei maggiori esperti di tecnologia a livello italiano ed europeo, ma anche un’occasione per esplorare le radici di una visione che continua a plasmare il nostro presente e a ispirare il futuro.

A titolo personale, intervistarlo è stato come dialogare con uno dei padri del digitale italiano, un riferimento costante per chiunque lavori nell’innovazione. Non si tratta solo di ammirazione: è la consapevolezza di quanto il suo lavoro abbia modellato il nostro presente e di come possa continuare ad offrire risposte alle sfide del futuro.

La tua carriera è un manifesto vivente dell’innovazione digitale. Sei stato un pioniere di Internet in Italia, contribuendo alla diffusione della Rete attraverso progetti come la creazione del primo Internet Service Provider orientato al mercato professionale e il tuo ruolo da legislatore sui temi tecnologici. Guardando a questa esperienza, se dovessi immaginare un mondo senza Internet, quali strumenti o principi utilizzeresti per affrontare le sfide della società moderna?

Immaginare un mondo senza Internet è come chiedersi come sarebbe stato il Rinascimento senza la scrittura: Internet è oggi il sistema nervoso della nostra società, essenziale per comunicazione, conoscenza e progresso. Se dovessimo ripartire, riprenderemmo comunque i principi fondanti della rete accademica delle origini: apertura, interoperabilità e decentralizzazione.

Invece di un ecosistema dominato dai servizi centralizzati, che ho definito a suo tempo un sistema ’feudale tecnologico’, dove pochi giganti detengono il potere e gli utenti sono relegati al ruolo di ’servi della gleba’, dovremmo mantenere un Internet molti-a-molti, esattamente come lo era agli inizi, dove la competizione si basi sulla qualità e sull’innovazione e non sul controllo ed eventuali monopoli. Questo richiede regole chiare per evitare il lock-in, promuovere concorrenza e garantire sempre l’accesso equo per tutti.

Hai introdotto il concetto di “neutralità dei dispositivi”, un’evoluzione della discussione sulla “neutralità della rete”. La prima riguarda l’uguaglianza nell’accesso ai contenuti online da parte degli utenti, mentre la seconda estende questo principio all’interoperabilità dei dispositivi, per evitare che produttori limitino l’accesso alle funzionalità. Come può questa idea influenzare la distribuzione del potere tra utenti, piattaforme e governi in un’epoca di crescente integrazione tecnologica?

La neutralità dei dispositivi è un’estensione della neutralità della rete. Questa assicura che il traffico online non venga discriminato sulla base di chi lo genera; la neutralità dei dispositivi invece punta a impedire che i produttori impongano limiti arbitrari all’uso delle apparecchiature. È un principio chiave per ridurre lo squilibrio di potere tra utenti, piattaforme e produttori.

Per me un esempio concreto in questo senso fu Reeplay.it, un’app che sviluppammo per consentire agli utenti di salvare video per guardarli più tardi, su qualunque dispositivo, anche offline. All’epoca, l’app permetteva di creare copie personali, totalmente legali, utilizzabili su dispositivi come telefoni Nokia, il primo iPhone, la Wii e la PlayStation. Tuttavia, ci siamo scontrati con le regole restrittive degli store digitali, che non ci consentivano di operare liberamente. Dopo numerose modifiche, richieste e rifiuti non documentati ufficialmente dagli app store, siamo stati costretti a chiudere.

Questa esperienza mi ha mostrato come barriere artificiali, come la mancata interoperabilità, soffochino la concorrenza e ostacolino l’innovazione. Proprio come per il caricabatterie universale Type-C per i device fisici, garantire standard aperti e interoperabili anche nei software, e in generale nei servizi, è fondamentale per avere un ecosistema più equo.

Nel tuo libro “Capitalismo immateriale” (edito da Bollati e Boringhieri), esplori il conflitto tra intermediari (piattaforme tecnologiche) e intermediati (utenti e fornitori di servizi), analizzando il potere che le piattaforme esercitano attraverso la gestione dei dati e delle relazioni digitali. Vedi segnali di una possibile inversione di tendenza verso una maggiore decentralizzazione, o credi che la centralizzazione del potere digitale sia un destino inevitabile?

Il conflitto tra intermediari e intermediati era già al centro del mio libro Capitalismo immateriale. La concentrazione di potere nelle piattaforme è un fenomeno che può apparire spesso strutturale del digitale, ma non è inevitabile, e non è intrinseco nel com’è stata concepita inizialmente la Rete, anzi, tutt’altro.

La decentralizzazione richiede sicuramente una combinazione di innovazione tecnologica e volontà politica, ma in primis di consapevolezza collettiva. Strumenti come interoperabilità e portabilità dei dati possono aprire spazi per nuovi attori, riducendo il controllo dei giganti. Tuttavia, gli utenti tendono a privilegiare la semplicità offerta più facilmente dai grandi vendor, rafforzando così il modello centralizzato. Ad ogni modo, resta essenziale che i governi intervengano quando necessario per bilanciare il potere, promuovendo un ecosistema sempre pluralistico e competitivo.

Ma a prescindere dal legislatore, oggi esistono già soluzioni decentralizzate in ogni ambito, come ad esempio Mastodon nei social media, che offre un modello alternativo: una rete distribuita e interconnessa, dove ogni nodo è indipendente ma parte di un insieme più grande e interoperabile, e quindi anche con altri social diversi da Mastodon stesso: un po’ come avviene già con le e-mail, dove sono tanti i provider che le offrono, eppure tutti si parlano fra loro.

L’intelligenza artificiale è spesso vista come uno strumento per aumentare l’efficienza e migliorare i processi decisionali. Tuttavia, hai sottolineato i rischi legati all’etica, alla trasparenza e alla disuguaglianza. Come possiamo assicurarci che l’IA diventi un acceleratore di inclusione sociale e benessere umano, oltre a un semplice strumento di produttività?

L’intelligenza artificiale è spesso vista in due forme: quella “noiosa”, che automatizza processi e attività quotidiane ma in modo meno visibile (per lo più dedicata ad applicazioni industriali), e quella “sensazionalistica”, che promette scenari futuristici come robot o auto autonome. Il fenomeno dell’AI Generativa ha indubbiamente spostato l’attenzione mainstream più su quest’ultima forma, nonostante alla base della stessa ci sia ancora una tecnologia intrinsecamente imprecisa, estremamente energivora (e quindi costosa), e che di fatto non sta ancora remunerando gli investimenti onerosi fatti.

Ad ogni modo, entrambe le dimensioni, sia quella più industriale e concreta, che quella più futuribile e almeno apparentemente di marketing, hanno implicazioni etiche e sociali profonde. In ogni caso, affinché l’IA diventi un acceleratore di inclusione sociale, dobbiamo garantire trasparenza e responsabilità, evitando che perpetui disuguaglianze. Inoltre, serve una cultura dell’IA: non può restare una scatola nera incomprensibile per cittadini e legislatori. Le aziende, spinte dalla velocità del mercato, spesso sacrificano valori come sostenibilità ed etica. È qui che una regolamentazione chiara, sia sul fronte italiano che europeo, può fare la differenza, orientando l’IA verso un futuro socialmente desiderabile.

La “sovranità digitale” e la frammentazione di Internet sono temi centrali delle tue riflessioni. Con sovranità digitale si intende il controllo nazionale sui dati e le infrastrutture digitali, mentre la frammentazione di Internet si riferisce alla divisione della rete globale in ecosistemi regionali o nazionali. Come possiamo bilanciare la necessità di proteggere i dati nazionali con l’urgenza di mantenere un ecosistema tecnologico globale, aperto e interoperabile?

Bilanciare sovranità digitale e apertura globale richiede visione politica e pragmatismo. La frammentazione della rete è un rischio concreto, come dimostra ad esempio il caso del Brasile con Starlink, dove la territorialità della tecnologia ha incontrato anche barriere normative. Tuttavia, la sovranità non deve trasformarsi in protezionismo digitale.

Norme europee, come il Digital Services Act e il Digital Markets Act, possono garantire interoperabilità e concorrenza, preservando i benefici di un Internet globale. È fondamentale che i governi collaborino per evitare un futuro in cui la rete diventi un mosaico di silos chiusi.

L’identità digitale è uno dei tuoi temi centrali, e attraverso il tuo lavoro hai contribuito allo sviluppo dello SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) in Italia. In un mondo dove la sorveglianza cresce e l’accesso ai servizi dipende dai dati personali, come possiamo proteggere la privacy degli utenti senza sacrificare l’efficienza e l’accessibilità delle tecnologie digitali?

Lo SPID rappresenta un passo fondamentale nell’evoluzione dell’identità digitale (e soprattutto nell’autenticazione verso la PA), e mi onora che me ne venga riconosciuta la paternità, ma non è nato dal nulla. Il suo antenato diretto, se così si può definire, è certamente la carta d’identità elettronica (CIE): concepita negli anni ’90 sotto la guida di Franco Bassanini e Alessandro Osnaghi (che ci aiutò con SPID), e realizzata concretamente solo molti anni dopo.

Questo per sottolineare quanto la visione dietro l’identità digitale sia stata radicata nella storia della modernizzazione del nostro Paese, dove siamo stati indubbiamente degli apripista anche a livello continentale e internazionale.

Infatti il prossimo passo è renderlo un sistema interoperabile a livello europeo: immaginare un’identità digitale europea, e in generale un sistema di autenticazione verso la PA valido in tutta l’Unione Europea, significa garantire semplicità, efficienza e sicurezza per milioni di cittadini europei.

Lo SPID ha dimostrato già in Italia che è possibile creare un’infrastruttura che offra un livello adeguato di sicurezza, modularità e scalabilità, anche senza bisogno di un supporto fisico, come invece è richiesto per la CIE. Questa eredità continuerà a crescere anche dopo l’accelerazione al digitale impressa dalla pandemia, diventando sicuramente un pilastro della cittadinanza digitale italiana ed europea.

Guardando al futuro del lavoro, l’automazione e l’intelligenza artificiale stanno trasformando il significato stesso di “occupazione”. Ritieni che il lavoro umano rimarrà centrale per la dignità e l’identità delle persone, o immagini un futuro in cui il lavoro diventi marginale, sostituito da nuovi modelli di contributo sociale?

Il lavoro umano non perderà mai la sua centralità, ma il suo significato evolverà con l’automazione e l’intelligenza artificiale. Per affrontare questa trasformazione, è cruciale ripensare fin da subito l’educazione.

Ad esempio, durante uno studio che abbiamo promosso con il Ministero dell’Istruzione, abbiamo sperimentato un modello innovativo nelle scuole: è stato chiesto agli studenti di utilizzare l’intelligenza artificiale, nello specifico GPT, per svolgere i compiti. Successivamente, gli studenti dovevano correggere gli errori dell’AI. Questo esercizio non solo li ha aiutati a sviluppare pensiero critico e capacità analitiche, ma ha anche evidenziato i limiti dell’AI, stimolando riflessioni sulle responsabilità umane nella supervisione tecnologica.

Questa esperienza dimostra quanto sia importante integrare le competenze digitali con soft skills come empatia e giudizio critico. Il lavoro non è solo una fonte di reddito, ma un elemento centrale della dignità e identità umana. La sfida è garantire che l’evoluzione tecnologica non lasci nessuno indietro, creando percorsi educativi che preparino a un futuro in cui la creatività umana collabori con le macchine, anziché essere sostituita da esse.

Hai navigato tra il ruolo di innovatore, imprenditore e policymaker, contribuendo in modo significativo sia allo sviluppo tecnologico che alla sua regolamentazione. Qual è stato il momento più cruciale della tua carriera, e come ha influenzato la tua visione sul rapporto tra tecnologia, società e politica?

Tra i momenti cruciali della mia carriera, lo sviluppo dello SPID e la mia attività legislativa sulla neutralità della rete rappresentano i più significativi. Hanno unito tecnologia e impatto sociale, dimostrando che è possibile conciliare innovazione e diritto. Ogni esperienza mi ha insegnato che la tecnologia è un mezzo, non un fine, e che la politica può essere uno strumento per garantire equità e sostenibilità.

Se avessi il potere di progettare una legge globale sulla tecnologia, quale sarebbe la tua priorità? Come immagineresti una normativa capace di cambiare in meglio il rapporto tra cittadini, piattaforme digitali e governi?

Se potessi davvero progettare in autonomia una legge globale, partirei dall’interoperabilità: un principio semplice, ma rivoluzionario, che riduce le barriere all’ingresso e promuove la concorrenza. Introdurrei anche obblighi di trasparenza per gli algoritmi e sistemi di regolamentazione progressiva, dove le norme diventano più stringenti man mano che aumenta il potere di mercato di un determinato soggetto. Solo così possiamo costruire un ecosistema tecnologico più equo e innovativo e realmente aperto a tutti.

Parliamo ora di Rialto Venture Capital, il nuovo operatore di venture capital che hai fondato insieme con Simone Brunozzi, in passato vicepresidente in VMWare e uomo chiave anche in Amazon Web Services, e che vede fra gli altri partner anche Alessandro Profumo, in passato già CEO di Leonardo e Unicredit, e Presidente di Monte dei Paschi. Com’è nata l’idea e perché?

L’idea è nata con l’intento di restituire. Ho avuto una vita professionale fortunata, se vuoi per tempi e modi pionieristica, che mi ha permesso oggi di avere attorno un network di persone di esperienza, competenti e che stimo, spesso manager e imprenditori di lungo corso, e con cui adesso abbiamo la possibilità di aiutare quegli italiani di talento che sono in giro per il mondo, e che sono parte di quella diaspora di cui tanto si parla. Il nostro obiettivo è riportarli in qualche modo in Italia, magari con la loro azienda, per creare valore qui da noi.

Siamo un venture capital che investe generalmente in realtà già avviate e di respiro internazionale, ma che abbiano almeno una base in Italia. Anche per questo abbiamo scelto di associarci a Roma Startup ed essere presenti e attivi anche nel nostro ecosistema. Al momento i nostri investitori sono per oltre il 30% soggetti internazionali, e in buona parte italiani che si sono distinti nel Mondo e che vogliono rimettere in circolo nuove energie. È una best practices abbastanza consolidata altrove, ma ancora piuttosto nuova qui da noi, e credo sia necessario restituire non solo capitali ma anche esperienze.

Immagina di parlare a un giovane che oggi si affaccia al mondo della tecnologia e del lavoro digitale. Qual è la lezione più importante che hai imparato nella tua carriera, e quale consiglio gli daresti per affrontare le complessità e le opportunità del futuro tecnologico?

Ai giovani direi di coltivare curiosità e spirito critico. La mia frase preferita è ’Lo pensi o lo sai?’ lo pensi perché l’hai sentito dire o lo sai perché hai verificato andando alla radice? Il cambiamento è l’unica costante, e chi saprà adattarsi resterà sempre rilevante. Ma il consiglio più importante è questo: chiedetevi sempre come la vostra innovazione possa migliorare il mondo. La tecnologia è uno strumento, ma il cambiamento reale dipende da come scegliamo di utilizzarla.

Jacopo Paoletti

Marketer, Manager, Entrepreneur, Advisor.

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