Inghilterra: nuovi assetti politici e conseguenze sugli scambi commerciali
Come Brexit, pandemia, riforma economica e dimissioni del primo ministro stanno piegando l’Inghilterra e cambiando gli assetti commerciali dell’Unione Europea.
Che non fosse semplice traghettare l’Inghilterra al di fuori delle acque tempestose di una crisi economica annunciata, ma mai ammessa, Liz Truss non poteva non saperlo.
Scossa dalla disastrosa combinazione degli effetti della Brexit e della pandemia Covid-19, alla mercé di un primo ministro (a dir poco)scapestrato, apparentemente più dedito alla vita sociale che alla salute della società inglese, l’Inghilterra si è risvegliata dove mai avrebbe immaginato di poter essere: in piena crisi economica, in recessione.
Certo, il primo ministro Truss ci ha messo del suo. Il 23 settembre scorso ha annunciato una riforma fiscale del valore di 45 miliardi di sterline, che ha avuto l’immediato esito di far crollare la sterlina, causare l’impennata dei tassi d’interesse sui titoli di Stato e portare i fondi pensione sull’orlo del default; causare un incremento dei tassi sui titoli di Stato, che ha obbligato la Banca d’Inghilterra ad acquisti per oltre 65 miliardi di sterline; non male per una misura innovativa.
Licenziare il Cancelliere dello Scacchiere Kwarteng non è servito a salvare il suo mandato; dopo soli 45 giorni a Downing Street, il primo ministro si è dimesso. La crisi economica galoppante, aggravata dal conflitto ucraino, non le ha permesso di rispettare quanto promesso agli elettori al momento del suo insediamento. Ma qual era lo stato di salute economico e finanziario inglese a luglio, quando Boris Johnson ha salutato la vita politica?
La situazione per cittadini e imprese
Previsione della Banca d’Inghilterra: recessione entro fine anno, uscita forse alla fine del 2023; a luglio l’inflazione ha superato il 10% e, secondo le stime, toccherà il 13,3% in autunno, per arrivare a quota 18% all’inizio del prossimo anno. Previsione del Fondo Monetario Internazionale: il prossimo anno Il Regno Unito realizzerà la crescita più bassa tra i Paesi del G7, nel G20 solo la Russia avrà un risultato peggiore (dice l’Ocse); la causa? L’isolazionismo imposto con la Brexit, che ha moltiplicato le difficoltà conseguenti alla pandemia, al conflitto ucraino, all’inflazione.
950 sterline all’anno era, diciotto mesi fa, il costo medio delle bollette di una famiglia inglese; attualmente, siamo arrivati a 1.971 sterline e, come presagito in tutta Europa, l’inverno porterà un incremento del costo dell’energia dell’80%, per bollette che raggiungeranno 3.549 sterline nonostante il price cap, il limite al prezzo dell’energia stabilito dal governo.
Tra parentesi, la restaurazione post-riforma fiscale annunciata e immediatamente ritirata ha portato, tra le altre conseguenze, un ridimensionamento temporale del sostegno governativo al caro energia, ora limitato a sei mesi e non più previsto fino al 2024.
A questo si aggiunga il terremoto seguito alla restaurazione, operata dal nuovo Cancelliere dello Scacchiere Jeremy Hunt che, per soddisfare i mercati e dimostrare la solidità della situazione finanziaria inglese, ha cancellato ogni ipotesi di riforma fiscale avanzata dal suo predecessore: nessun taglio delle tasse ai cittadini più abbienti, aliquota fiscale sulle imprese al 25% (dal 19% precedente), aliquota base sui redditi personali stabile al 20%.
Mercati soddisfatti e sterlina più stabile: ma la situazione sociale è altra storia: 1.800 imprese inglesi hanno dichiarato bancarotta nel mese di luglio, a situazione invariata si prevede un incremento di fallimenti e licenziamenti, la forza lavoro si è ridotta di circa 1 milione di persone, il disavanzo commerciale cresce ogni giorno e le esportazioni calano al di là di ogni aspettativa: colpa della Brexit?
Come la politica inglese si riversa sull’economia dell’Unione
“Dio non gioca a dadi con l’universo”, sentenziava Albert Einstein a difesa della propria teoria della meccanica quantistica, accusata da Max Born di casualità e incertezza. Ma, per certo, David Cameron si è seduto al tavolo, il 23 giugno 2016 e ha giocato a dadi col destino del Regno Unito e, perché no, dell’Unione Europea. E così, in una giornata da tregenda, con Londra assediata dall’acqua e un paio di seggi chiusi per allagamenti, si portò a compimento il destino della Brexit e dello stesso Cameron: leave, 51,9%, remain 48,1%, la scommessa è persa.
Probabilmente, oggi, quel 48,1% è cresciuto molto e, forse, il referendum non si terrebbe nemmeno.
La Gran Bretagna è attualmente il quattordicesimo esportatore mondiale (l’Italia è il settimo) e le sue vendite nell’Unione europea, suo primo mercato, sono scese del 24% in termini nominali dal 2017, nonostante una caduta della sterlina del 17% sull’euro; l’export britannico è di poco superiore a quello di Singapore o del Vietnam e nemmeno gli scambi con il resto del mondo godono di ottima salute.
Il “Welcome to Britaly” sbandierato dall’Economist qualche giorno fa deve farci sorridere, più che arrabbiare; ma la Brexit deve essere un monito, un avvertimento per tutti coloro che pensano di poter tranquillamente isolare un Paese da una comunità che, per quanto tale termine non sia più così di moda, è sempre globalizzata.
L’improvvisazione britannica vissuta agli albori del divorzio con la Ue sembra non aver ancora abbandonato le imprese e le istituzioni di Sua Maestà; è curioso notare come a una produzione sicuramente corposa e dagli standard qualitativi elevati da parte di HMRC, non sia corrisposta una operatività altrettanto fluida e consapevole delle necessità imposte da una politica doganale fino a quel momento sconosciuta; l’arroganza con la quale la Gran Bretagna continua ad applicare in parte e secondo i propri bisogni le disposizioni del Trade and Cooperation Agreement ha già portato più di una volta la UE a minacciare ritorsioni.
E fanno sorridere, oggi, le affermazioni dell’allora ministro Truss, che paventava una possibile disapplicazione dell’accordo da parte britannica, se l’Unione europea non avesse accettato di rimettere in discussione il protocollo sull’Irlanda del Nord (che prevede gli sdoganamenti «in mare», per evitare barriere doganali sul territorio irlandese), peraltro voluto proprio da Boris Johnson. La Brexit non ha ancora scritto la parola fine; e i sudditi di Sua Maestà se ne stanno accorgendo.
Vi invitiamo ad approfondire le cause scatenanti della Brexit, la sua nascita ed evoluzione, e le conseguenze che ha avuto e ha sugli scambi commerciali in UE leggendo il nostro libro edito per Giappichelli Brexit e Dogana, e a non esitare a contattarci per esaminare con attenzione la situazione di import/export della tua azienda con l’Inghilterra.
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