Oreste Pollicino, l’Intelligenza Artificiale e il rischio di un Leviatano chiamato Tecnocrazia
Jacopo Paoletti
28 aprile 2025
Oreste Pollicino discute di IA, diritto e futuro democratico. Analisi su disinformazione, privacy e nuove forme di sovranità digitale.

Oreste Pollicino è una delle voci più autorevoli e ascoltate in Europa sul rapporto tra diritto, tecnologia e democrazia. Professore ordinario di Diritto Costituzionale e regolazione dell’Intelligenza Artificiale presso l’Università Bocconi di Milano, dirige il LL.M. in Law of Technology and Automated Systems ed è co-direttore del centro di ricerca RULES. È anche presidente del Centre on Digital Constitutionalism and Policy (DICOPO) con sede a Bruxelles e rappresenta l’Italia presso l’Agenzia dell’Unione Europea per i Diritti Fondamentali.
Nato a Messina nel 1975, si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Messina e ha conseguito un LL.M. al College of Europe di Bruges. Avvocato cassazionista, è fondatore di AIdvisory Pollicino & Partners. Ha ottenuto l’abilitazione a professore ordinario in tre diverse discipline: Diritto Costituzionale, Diritto dell’Unione Europea e Diritto Comparato.
La sua attività accademica si concentra sul costituzionalismo digitale, la protezione dei dati, la regolazione dell’intelligenza artificiale, la cybersecurity e il diritto dei media. Ha pubblicato oltre 40 volumi e più di 300 articoli scientifici, ed è stato recentemente Fulbright scholar presso la New York University. Il suo ultimo libro, scritto con Pietro Dunn e con prefazione di Luciano Violante, si intitola “Intelligenza Artificiale e Democrazia”, edito Bocconi University Press, 2024.
A livello istituzionale, è stato nominato ’Honest Broker’ dalla Commissione Europea per la negoziazione del Codice di condotta sulla disinformazione, ed è membro del Global Partnership on Artificial Intelligence dell’OCSE, oltre ad aver partecipato ai lavori del Comitato ad hoc sull’Intelligenza Artificiale (CAHAI) del Consiglio d’Europa.
Pollicino è noto per la sua capacità di coniugare rigore accademico e impegno pubblico, affrontando temi complessi con un approccio critico e interdisciplinare. Attraverso le sue ricerche e interventi, contribuisce al dibattito internazionale su come le tecnologie emergenti influenzano i diritti fondamentali e le strutture democratiche.
D:Oreste, tu scrivi, insegni e regoli il diritto in un mondo che non legge, non ascolta e non riconosce più l’autorità. Come si fa il giurista, oggi, senza scivolare nel ruolo di commentatore disilluso o di notaio tardivo della realtà?
R: Oggi essere giuristi significa operare in un contesto di continua disintermediazione, dove le opinioni si moltiplicano ma il senso della norma rischia di disperdersi. Il giurista non può più limitarsi a interpretare le leggi come se il mondo attorno fosse immobile. È chiamato a esercitare un ruolo critico, quasi maieutico, aiutando la società a riconoscere nelle norme un riflesso dei propri valori più profondi, non solo un insieme di comandi tecnici.
Questo richiede rigore analitico ma anche coraggio civile. Il giurista oggi è, paradossalmente, una figura di resistenza: resistenza alla semplificazione, alla algoritmizzazione dell’umano, al cinismo di chi pensa che tutto sia già deciso dai codici, quelli binari e quelli giuridici. Non siamo cronisti del tramonto, ma architetti di una transizione, se sappiamo accettare la sfida.
D: Nel 2024 hai scritto che l’AI generativa rappresenta un passaggio dall’automazione all’autonomia. Ma in un ecosistema che sfugge al controllo umano, dove inizia la responsabilità giuridica e dove finisce quella politica?
R: Il cuore della questione sta nel riconoscere che l’autonomia tecnica non può sostituire la responsabilità umana. L’AI generativa produce contenuti, prende decisioni, struttura interazioni: agisce, in un certo senso, senza bisogno dell’uomo. Ma il diritto non può ammettere una responsabilità “senza soggetto”.
La sfida è duplice: giuridica e politica. Giuridica, perché occorre adattare concetti come imputabilità, prevedibilità e colpa a sistemi che apprendono e si modificano. Politica, perché bisogna decidere chi ha titolo per stabilire i limiti, con quale legittimità e in nome di quali valori.
L’AI Act tenta di rispondere con un sistema multilivello di accountability, che parte dalla progettazione e arriva alla sorveglianza sociale. Ma senza una cultura della responsabilità condivisa, ogni legge rischia di diventare solo un manifesto.
D: Hai contribuito all’AI Act e lo hai anche criticato. Ma, stringi stringi: l’Europa regola davvero la tecnologia… o semplicemente la racconta meglio?
R: L’Europa non ha la Silicon Valley, ma ha la Carta di Nizza. Questo fa la differenza. Regolare in assenza di potere economico dominante non è debolezza, ma una scelta di campo. È ciò che rende l’Europa laboratorio normativo, più che mercato di consumo. Il GDPR ha dimostrato che si può influenzare il mondo non solo attraverso l’innovazione tecnologica, ma anche attraverso la codificazione dei diritti.
L’AI Act segue questa linea: non un codice tecnico, ma un documento politico. Le critiche che gli muovo non derivano da sfiducia nel metodo, ma dal timore che si perda l’ambizione di incidere davvero. Perché il diritto, se vuole essere forza trasformatrice, non può accontentarsi di essere il racconto morale della tecnica. Deve essere la sua contro-narrazione attiva, il suo limite strutturale.
D: Tra tutti i tuoi libri, articoli, comitati, incarichi istituzionali, c’è una costante: la tensione tra libertà e disinformazione. Ma sinceramente: oggi il problema è ciò che la gente crede, o il fatto che non crede più a nulla?
R: È la disgregazione del patto cognitivo su cui si fondano le democrazie a preoccuparmi di più. La libertà di opinione presuppone la possibilità di distinguere tra vero e falso, tra legittimo dissenso e propaganda sistemica. Ma oggi viviamo in un infosfera dove il rumore prevale sul senso, e la sfiducia generalizzata si traduce in paralisi democratica. Le persone non credono più ai fatti, ma nemmeno alle interpretazioni.
È l’epoca del “tutto è possibile e nulla è certo”, dove la verità diventa un’opinione tra le altre. In questo contesto, l’intervento pubblico non può essere solo repressivo: deve essere rigenerativo. Occorre creare spazi informativi affidabili, forme di educazione civica digitale, strumenti che rendano visibile ciò che oggi è nascosto nei meccanismi delle piattaforme. È una sfida di sovranità cognitiva, prima ancora che normativa.
D: Nel tuo lavoro il diritto sembra una forma di architettura morale. Ma se gli algoritmi scrivono le regole e le piattaforme le fanno rispettare, cos’è rimasto del concetto classico di Costituzione? Un’icona? Un’illusione? O ancora una trincea?
R: La Costituzione non è un oggetto da museo. È un dispositivo vivo, ma oggi minacciato da poteri che non si dichiarano e non si legittimano secondo forme democratiche. Le piattaforme digitali sono nuove forme di sovranità: selezionano, premiano, censurano. Eppure non rispondono a nessun popolo, non giurano su nessuna Carta.
La sfida è far sì che il costituzionalismo non diventi un linguaggio obsoleto. Per questo parlo di ’costituzionalità digitale’: non una sovrapposizione tecnica, ma un tentativo di riportare nel perimetro della decisione pubblica ciò che oggi accade nell’invisibile. È una trincea, sì, ma una trincea necessaria. E non possiamo permetterci di perderla.
D: I dati personali sono diventati la valuta geopolitica del nostro tempo. Ma la privacy, così com’è, non sembra più difendere il privato, bensì l’illusione di esserlo. Esiste ancora un diritto “a non essere leggibili”?
R: La questione non è più solo se i nostri dati siano protetti, ma se la nostra identità rimanga comprensibile a noi stessi prima che agli algoritmi. La ’non leggibilità’ non è un rifiuto della trasparenza, ma un’esigenza di opacità esistenziale: il diritto a non essere completamente decifrabili da sistemi che ci riducono a comportamenti prevedibili.
È il prolungamento naturale della dignità umana, perché implica il riconoscimento di una zona di libertà interiore, sottratta alla classificazione continua. Il GDPR ha tracciato un primo perimetro, ma oggi serve una nuova stagione normativa che protegga la nostra irriducibilità, il nostro essere più di ciò che possiamo essere profilati. Difendere la privacy oggi è difendere il mistero dell’umano, la sua non totale disponibilità al mercato e alla tecnica.
D: Le piattaforme si autogovernano, le istituzioni rincorrono. Hai scritto spesso di co-regolazione. È davvero un modello condiviso, o è solo un modo per spartirsi la responsabilità quando succede qualcosa di grosso?
R: La co-regolazione, se è reale, è un atto di responsabilità condivisa; se è finta, è un gioco delle parti. La differenza sta nella governance: chi decide, con quali strumenti, con quale trasparenza? Il rischio è che, dietro il lessico della cooperazione, si nasconda una deresponsabilizzazione sistemica.
In Europa, la co-regolazione deve essere incardinata in strutture istituzionali forti, capaci di sorvegliare, valutare e sanzionare. Non può diventare un outsourcing delle funzioni pubbliche. Ecco perché insisto su organismi indipendenti, su codici dinamici, su metriche di efficacia. È un equilibrio sottile, ma necessario, se vogliamo evitare che la tecnica si trasformi in politica occulta.
D: Tu sei nato a Messina, studiato a Bruges, oggi insegni a Milano, ma parli alle istituzioni europee, scrivi per riviste internazionali, e citi Kant e Netflix nella stessa frase. Quando è che hai capito che il diritto non era più nazionale, e nemmeno europeo, ma esistenziale?
R: Credo che quel passaggio sia avvenuto nel momento in cui ho iniziato a vedere la legge non più come un recinto, ma come una lente per leggere l’umano. Quando ho capito che non bastava più distinguere tra pubblico e privato, tra Stato e mercato: serviva capire cosa resta della persona nel vortice della trasformazione digitale.
E allora ho sentito che il diritto non è una disciplina tra le altre, ma un crocevia tra etica, tecnologia, storia e potere. Non è più solo un prodotto delle istituzioni: è anche una bussola, una forma di resistenza simbolica contro l’omologazione. La sua vera posta in gioco è l’umano. Ed è in questo senso che il diritto oggi è esistenziale.
D: Parli con cautela ma anche con forza. Sei uno dei pochi giuristi italiani a essere rispettato anche fuori dall’Italia. Ma qual è la tua vera paura oggi, non da accademico, ma da cittadino, da padre, da uomo?
R: Che ci si abitui a un mondo dove la partecipazione non è più necessaria. Dove tutto è già deciso — da chi non sappiamo, secondo logiche che non comprendiamo. Temo una società che funzioni perfettamente, ma senza interrogarsi sul perché. Dove la giustizia venga sostituita dalla performance, e la libertà dall’efficienza.
La democrazia non è il regime più veloce, né quello più coerente. Ma è l’unico che riconosce il valore del dubbio, dell’errore, del dissenso. Temo che la tecnica ci porti via anche questo: la lentezza delle decisioni condivise, la fatica del confronto, la bellezza dell’imperfezione. È una paura antica, ma oggi assume contorni nuovi. E chiede nuove forme di impegno.
D: Domani ti chiamano da Bruxelles e ti chiedono di scrivere il primo articolo della Carta Costituzionale dell’Epoca Digitale. Hai un solo paragrafo per fissare ciò che conta davvero.
R: La persona umana ha diritto a non essere ridotta a dato, automatizzata nel giudizio, né governata da logiche opache. Idea alla base di questo paragrafo è ogni decisione tecnologica che incide su diritti fondamentali deve essere fondata su trasparenza, comprensibilità e contestabilità.
La dignità precede l’efficienza, la libertà precede la profilazione. La tecnologia è strumento, mai soggetto sovrano. L’algoritmo non può diventare il nuovo Leviatano. La Costituzione digitale deve custodire lo spazio dell’umano, della scelta, dell’imprevedibilità. E ricordarci che anche nell’epoca dell’intelligenza artificiale, la responsabilità rimane irriducibilmente nostra.

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