Aumentare la spesa per la difesa in Europa è una concreta possibilità o un azzardo? Quante risorse servono per far crescere la quota di Pil destinata al settore? Un’analisi.
L’Europa sotto pressione sulla spesa militare: aumentare le risorse per la difesa sta diventando prioritario con lo stallo della guerra in Ucraina e l’approccio Usa verso un maggiore disimpegno, ma a quale prezzo?
Se lo chiedono analisti e osservatori economici, consapevoli che rafforzare il peso dei Paesi Ue nella Nato con il raggiungimento del 2% di quota del Pil per i contributi alla difesa in seno all’organizzazione è un impegno complesso per molti Governi. Il costo di un rafforzamento della strategia difensiva, con maggiori investimenti per modernizzare eserciti, armamenti, sistemi all’avanguardia per la sicurezza potrebbe essere elevato e a discapito di voci di bilancio importanti (come il sociale).
In più, l’Ue non ha una difesa comune istituzionale e costruirla non è né semplice né immediato. Riprendendo alcuni spunti di riflessione degli esperti Ispi e dell’Economist, ci sono almeno 3 rischi economici che l’Europa corre per inseguire una maggiore spesa militare.
L’Europa “indifesa”: qual è l’attuale spesa militare?
Come ricordato da Antonio Missiroli, Ispi senior adviser, “Freedom isn’t free” (slogan coniato negli Usa ai tempi della guerra in Corea).
Se la libertà la intendiamo come un traguardo raggiunto attraverso la guerra, essa costa in termini di vite umane, distruzione materiale e sociale, ma anche per risorse impiegate in armi, munizioni, eserciti, mezzi di ogni entità. Il conflitto in Ucraina causato dall’aggressione russa di 2 anni fa ha riacceso l’incubo di una guerra nel vecchio continente dopo decenni di pace e di costruzione della democrazia (con l’Ue come uno dei risultati della svolta dal secondo dopoguerra in poi).
E in questo contesto, la corsa al riarmo è diventato un tema prioritario nelle agende politiche dei Governi. In primis, a sorpresa, in Germania, con un fondo da 100 miliardi di euro per rafforzare le sue forze armate e mira a raggiungere l’obiettivo della NATO di spendere immediatamente almeno il 2% del PIL per la difesa.
Missiroli ha sintetizzato nella sua analisi per Ispi che “entro la fine di quest’anno, 18 Paesi NATO su 31 (erano appena cinque pochi anni fa) rispetteranno il target del 2% del PIL in spese per la difesa fissato nel 2014, all’indomani della prima invasione: lo farà per la prima volta anche la Germania (grazie soprattutto al “fondo speciale” di 100 miliardi di euro su 4 anni creato subito dopo l’attacco russo a Kyiv), e il 2% sarà pure la media generale fra tutti gli alleati (fra i più importanti, solo Italia e Canada ne restano al di sotto).”
E poi, “i Paesi europei della NATO (incluse quindi Gran Bretagna, Turchia e Norvegia) sono passati da una spesa aggregata di 230 miliardi di euro nel 2014 ad un totale di 380 per il 2024, mentre per i soli Paesi UE – secondo i dati dell’European Defence Agency (EDA) – la crescita rispetto a 10 anni fa è del 40%”.
Un cambio di passo evidente, quindi, in Europa. L’Ue, proprio in questo mutato contesto, si appresta a mettere insieme le risorse per incrementare la spesa per l’industria della difesa in modo comunitario (non può esistere un bilancio comune militare). Tuttavia, come reperire maggiori fondi è tutto da decidere. I rischi di un terremoto economico e di bilancio sono almeno 3 e suonano come un’allerta per l’equilibrio socio-economico e politico dell’Unione.
1. Squilibrio di bilancio
Come faranno i Paesi a rispettare impegni più ambiziosi? Quelli che attualmente non riescono a raggiungere l’obiettivo del 2% della NATO, tra cui Belgio e Spagna, così come Francia e Germania, tendono già ad avere tasse più alte. Dovranno quindi ridefinire le priorità, spostando la spesa, ad esempio, dalla sanità e dal welfare alla difesa.
Secondo i calcoli dell’Istituto Ifo, per spendere il 3% del Pil nella difesa, la spesa per tutto il resto dovrà diminuire del 3% in Germania e Italia, e del 2% in Gran Bretagna e Francia. Gli elettori potrebbero opporsi al taglio delle loro pensioni per acquistare più carri armati, ha suggerito l’analisi.
2. Più debito?
Un’altra opzione è indebitarsi. Anche se pochi economisti normalmente sosterrebbero il finanziamento delle forze armate tramite il debito, poiché è proprio il tipo di spesa regolare per cui sono progettate le tasse, lo shock attuale potrebbe giustificare deficit maggiori.
In teoria, il prestito non sarebbe un problema nei Paesi a basso debito come Germania e Paesi Bassi. Ma ci sono ostacoli. I colloqui su un Governo di coalizione olandese sono appena falliti a causa delle divergenze sulla spesa. I riformatori tedeschi si stanno scontrando con un freno costituzionale al debito che ha causato una crisi di bilancio. E ulteriori prestiti non sarebbero una scelta oculata in gran parte dell’Europa meridionale, comprese Italia e Spagna, che l’anno scorso hanno entrambe speso più per il pagamento degli interessi rispetto alle loro forze armate.
3. Finanziamenti Ue
Un’ultima opzione per aumentare la spesa militare europea sono i finanziamenti dell’UE. Kaja Kallas, il primo ministro estone, sostiene che il blocco dovrebbe istituire un bilancio della difesa finanziato dal debito sulla falsariga del Recovery Fund pandemico.
La logica che ha sostenuto il fondo – ovvero la spesa comune dell’UE in cambio di riforme reciprocamente vantaggiose – si applicherebbe apparentemente anche adesso, forse con riforme questa volta riguardanti gli appalti della difesa. Eppure c’è un problema. Per il momento, i ministri delle finanze del Nord e del Sud dell’Europa devono ancora convincersi di un fondo che andrebbe a beneficio soprattutto dell’Est. La triste verità è che potrebbe essere necessario un altro shock per spingerli ad agire, ha sentenziato l’analisi dell’Economist.
Quel che è certo è che il pressing sull’Europa, intesa come Ue e come singole nazioni, per incrementare la spesa sulla difesa ha un significato politico. Quale Europa e quale mondo vogliamo nel prossimo futuro si misura anche nella corsa alle armi che “erode” i bilanci, a svantaggio di altri investimenti (nel sociale, nella transizione ecologica, nell’istruzione, nel lavoro).
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