“Recover together, recover stronger”: scenari commerciali e sviluppi doganali dopo il G20
Un’analisi degli scenari economici internazionali e dei conseguenti sviluppi doganali alla luce degli stravolgimenti degli ultimi anni e delle discussioni intraprese durante il G20 di Bali.
Pandemia, conflitto russo-ucraino, instabilità geopolitica, disequilibri internazionali, un ecosistema instabile, humus fertile per aspiranti uomini forti guidati dall’idea della supremazia nazionale, economica o militare che sia: mentre l’anno volge al termine, voltarsi indietro a guardare le macerie degli ultimi due anni lascia in eredità solo dubbi e incertezze.
Dubbi e incertezze che divengono ancor più opprimenti se misurati con le sfide che ci attendono nei prossimi anni, dalla green economy alla transizione digitale, dai cambiamenti climatici alle recessioni economiche, dallo sfaldamento dei centri di potere tradizionali alle tensioni sociali, dal distanziamento personale al distanziamento economico.
Dubbi e incertezze le cui risposte sono demandate, in primis, a coloro che decidono (o dovrebbero decidere) le sorti economiche e politiche del pianeta e che, annualmente, si riuniscono in un mondano happening per un confronto globale nel quale, troppe volte, gli interessi individuali soffocano l’interesse collettivo.
L’ultimo, a Bali, lo scorso novembre, sventolava il vessillo della condivisione, della rinascita, della forza data dall’unità e, quale conseguenza, tra l’altro, la decisione di riavviare politiche commerciali multilaterali quale strumento di crescita e sviluppo; prassi, in realtà, mai venuta meno nella comunità internazionale, come testimoniano i grandi accordi transnazionali asiatici, africani, pacifici in continua evoluzione.
«Scopo primario della politica commerciale unionale è, infatti, lo sviluppo delle opportunità di crescita economica per le aziende europee, rimuovendo le barriere commerciali come dazi, quote e restrizioni e garantendo, attraverso una politica doganale comune, una competizione leale; si tratta di un volano essenziale per il sistema economico, influenzando crescita e occupazione…»: questo scrivevamo qualche settimana fa, questa è l’idea guida emersa dalle relazioni di Bali.
Che una politica commerciale diffusa certifichi la sopravvivenza della globalizzazione e la fine degli istinti protezionistici è affermazione forse troppo semplicistica, come qualsiasi estremismo; lo stato febbrile che affligge la salute del commercio internazionale è solo la manifestazione visibile di un fenomeno ben più complesso e pericoloso, che investe le decisioni economico/politiche attuali e future.
Sempre che qualcuno abbia la volontà vera di decidere: nel momento critico odierno per l’economia globale, è essenziale che il G20 intraprenda azioni tangibili, precise, rapide e necessarie, utilizzando tutti gli strumenti politici disponibili per affrontare le sfide comuni, anche attraverso macro politiche internazionali di cooperazione e concreti strumenti di collaborazione, parola della Casa Bianca.
Tuttavia, prima di addentrarci in questa giungla inestricabile, sia consentito riportare l’incipit del paragrafo 4B della Dichiarazione finale del summit, secondo cui la cultura e la conoscenza sono i motori di qualsiasi cambiamento:
“Riaffermiamo il ruolo della cultura come fattore abilitante e motore per lo sviluppo sostenibile, con un valore intrinseco al di là dei suoi benefici sociali ed economici. Ci impegniamo a sviluppare politiche che attingano alla diversità culturale come risorsa per una vita sostenibile e promuovano un ecosistema inclusivo ed equo a tutti i livelli, che valorizzi il contributo di coloro che lavorano nei settori della cultura, delle arti e del patrimonio…”.
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Integrazione dei sistemi commerciali
Liberalizzazione del commercio multilaterale, quindi; ma anche frammentazione economica, blocchi internazionali, barriere al commercio, modelli di business in evoluzione, protezionismo altalenante: tutte variabili in grado di incidere pesantemente sulle rotte delle catene di approvvigionamento.
Frammentazione economica, dicevamo, ma anche integrazione dei sistemi commerciali; la risposta alla crisi energetica odierna ne è una testimonianza. Creare supply chain resilienti, in grado di non soccombere dinanzi agli eventi storici, politici, catastrofici; eliminare, ove possibile, le dipendenze indesiderate, come l’importazione di materie prime o prodotti high-tech dalla Cina o idrocarburi e metalli dalla Russia. Non perseguire una miope autarchia, foriera di consensi a breve termine (Brexit docet), bensì evitare la dipendenza da centri di produzione posizionati in mercati lontani e avvicinare la produzione in luoghi più facilmente raggiungibili; il near-shoring e il friend-shoring rivedono le logiche del commercio estero, ma non portano necessariamente a una rinuncia alla globalizzazione; diversificazione e ripartizione del rischio e non certo centralizzazione degli impianti produttivi sono gli antidoti alle tensioni guidate dal lato dell’offerta.
Un esempio? Il mercato dei semiconduttori. Usa e UE stanno cercando di liberarsi dalla dipendenza cinese, sostenendo con fiumi di denaro ambiziosi progetti di riallocazione della produzione, che porterebbero a una nuova perimetrazione della catena di approvvigionamento, sfruttando partners quali Taiwan (nonostante i veti di Xi Jinping), Corea del Sud e Giappone per evitare, come nel recente passato, crisi di produzione più o meno politicamente pilotate. Non certo una deglobalizzazione, quindi, solo una diversificazione delle rotte commerciali.
A una staticità geografica dei mercati di approvvigionamento di alcune materie prime essenziali potrebbe, al contrario, corrispondere una nuova definizione dei Paesi di vendita dei prodotti finiti, almeno nelle analisi della Commissione europea.
In una globalizzazione a connotazione sempre più regionale, può trovare ancora spazio l’idea di global supply chain? L’annullamento dello spazio fisico, sostituito dalla connessione tra sistemi, ha già istituzionalizzato una sorta di realtà virtuale, nella quale, inconsapevoli, ci muoviamo ogni giorno.
In uno scenario 2040 in cui l’economia sarà più circolare, ci sarà una maggiore preferenza per modelli di business economici circolari, per consumi e produzioni locali. Per questo motivo saranno movimentate più materie prime che prodotti finiti.
E ciò avrà inevitabili implicazioni doganali: il monitoraggio dei flussi di materie prime richiede la conoscenza dell’intero ciclo di vita di un prodotto, al di là della considerazione che un’economia circolare richiede un panorama tariffario molto complesso, ad esempio per l’inclusione di dazi ambientali.
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Globalizzazione e accordi commerciali
Per contro, e paradossalmente, un serio motivo di frammentazione potrebbe essere individuato in quella che definiremmo una indebita invasione politica (o geopolitica) nella conclusione di accordi commerciali.
L’Asia ne è un esempio vivente: i due più recenti mega-accordi, il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) e il Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cpttp), hanno diversi componenti e diversi fini, non sempre facilmente coniugabili. Basti pensare che la Cina non è presente in entrambi e le influenze della politica cinese sui vicini e meno vicini stati asiatici sono ben note a tutti (si veda il progetto One Belt, One Road, ovvero la Via della Seta nella versione di Xi Jinping, con infrastrutture pagate dalla Cina anche nei Paesi limitrofi, per facilitare gli accessi al mercato cinese). E basti ancora ricordare come gli Usa, usciti da una ondivaga politica trumpiana, e l’UK, libera dai vincoli unionali, bramino di entrare in tali consessi, non certo con il ruolo di comprimari, ma per monitorare da vicino le mosse del Paese del dragone.
Ed è evidente come, in una situazione così magmatica, il EU-US Trade and Technology Council (Ttc), di recente istituzione, si affermerà quale spazio per progetti concerti di cooperazione normativa e di liberalizzazione del commercio che vada oltre il coordinamento delle politiche sanzionatorie nei confronti della Russia.
Se il conflitto russo-ucraino ha determinato scosse economiche sul mercato delle materie prime energetiche, mostrando altresì la debolezza di alcune catene di approvvigionamento chiave relative ai prodotti agricoli, provocando tensioni geopolitiche difficilmente ipotizzabili e manifestando il bisogno di equilibri internazionali e commerciali diversi, almeno da quanto fino a oggi sperimentato, tuttavia, dati macroeconomici alla mano, non sembra aver intaccato il sistema economico prevalente, basato su filiere produttive interdipendenti e globalizzate. Insomma, la globalizzazione pare ancora in buono stato di salute. Più frammentata, ma in buona salute.
Gli analisti (ad esempio, Ispi) vedono nel prossimo futuro un possibile accorciamento di alcune filiere produttive e un conseguente aumento dell’inflazione, a causa di un trade-off tra fornitori più vicini e ritenuti più affidabili, anche se più costosi. Un prevedibile peggioramento degli indici delle economie occidentali, nonché l’imponderabile lunghezza del conflitto russo-ucraino e le relative e inevitabili tensioni geopolitiche potrebbero contribuire a spingere verso il basso i flussi commerciali.
Nel medio-lungo periodo non è possibile, a priori, escludere un mondo diviso in blocchi. In ogni caso, l’attuale livello di interdipendenza economica appare insostituibile, così da rendere quale scenario più probabile quello di una duratura globalizzazione, anche se caratterizzata da forme diverse da quelle fino a oggi conosciute e variabili in ragione delle condizioni economico-politiche del momento.
In questo mondo in continuo e perpetuo divenire l’attenzione ai mercati internazionali, alle scelte politiche, alle analisi macroeconomiche diviene essenziale per la determinazione di qualunque progetto di espansione aziendale.
Possiamo analizzare insieme gli scenari internazionali ed i loro sviluppi doganali per preparare la tua azienda al meglio: le nostre porte sono sempre aperte hello@overyitalia.com.
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