L’indice TA-35 rimbalza e dimezza le perdite, nonostante l’allarmismo a livello globale. D’altronde, fu proprio il tonfo del petrolio a innescare il domino che portò la Fed a imbracciare il bazooka
Ci sono cali degli indici di Borsa che vanno festeggiati come rialzi. E’ il caso di quanto avvenuto oggi in Israele, il cui indice delle large caps TA-35 ha chiuso le contrattazioni in calo solo dell’1,48% a 1.868 punti, poco distante dal massimo intraday di 1870 ma soprattutto dopo aver toccato un minimo in apertura di 1834. Insomma, Omicron fa meno paura.
E si può azzardare questa conclusione poiché la Borsa che ha operato da canarino nella miniera, essendo la prima a riaprire dopo il bagno di sangue di venerdì, è rappresentativa del sistema economico-finanziario di un Paese che ha già chiuso le proprie frontiere e ha visto il suo primo ministro ammettere come la situazione sia alle soglie dell’emergenza, nonostante si stia già operando in modalità di quarta dose di vaccino. Eppure, le notizie che giungono dal resto del mondo appaiono oggi tutt’altro che rassicuranti.
Se in America è tornato alla ribalta il professor Fauci, spintosi ad ammettere di non sapere se saranno necessari nuovi lockdowns, l’Europa ha registrato uno stillicidio di casi della nuova variante e dalla Germania è arrivata una doccia fredda dai toni apocalittici. Il presidente della World Medical Association, professor Frank Ulrich Montgomery, si è infatti spinto a paragonare il potenziale di contagiosità e letalità di Omicron a Ebola, invitando il governo a un nuovo lockdown totale, alla chiusura immediata dei mercatini natalizi, all’imposizione dell’obbligo vaccinale e all’invito per le prossime settimane a una limitazione al minimo dei contatti sociali. Insomma, allarme.
Giunto in contemporanea con quello di diversa natura ma non meno inquietante contenuto in questo grafico:
il trend dell’inflazione nell’eurozona, infatti, è pronosticato come il più veloce e repentino della storia, di fatto un fattore decisamente poco positivo per una Bce che fra due settimane sarà chiamata a dire la sua sulle politiche monetarie e sulla prosecuzione del Pepp dopo il 31 marzo. Insomma, Omicron contro inflazione. Ma ecco che questo altro grafico
sembra gettare benzina sul fuoco rispetto a quanto attendersi dalle Borse nella settimana entrante. Anzi, fra poche ore, quando apriranno i mercati asiatici: stante anche l’enorme esposizione sulla lira turca degli investitori giapponesi, il costo per la protezione contro la volatilità dello yen è appena salito al massimo da oltre un anno a questa parte.
Perché allora Israele ha chiuso in rosso ma con una sfumatura decisamente rosea, quantomeno alla luce della sell-off globale di venerdì? Forse perché si fa affidamento sui ricorsi storici. I quali ci ricordano come nel marzo del 2020 fu il crollo globale delle equities che generò il Qe pandemico, a sua volta scatenato da un tonfo del prezzo del petrolio simile a quello sostanziatosi te giorni fa. All’epoca fu il fallimento della strategia dell’Opec di taglio della produzione ad affondare le valutazioni, innescando un effetto domino sulle valute dei mercati emergenti, le cui Banche centrali cominciarono a scaricare titoli di Stato Usa e sabotando così il carry trade. Detto fatto, la Fed si vide costretta a imbracciare il bazooka e dar vita a un Qe emergenziale d 1,5 trilioni di dollari.
Insomma, tutto cominciò dal prezzo del petrolio. Andrà così anche questa volta, nuovo Qe in vista o quantomeno rallentamento del taper e garanzia di tassi inchiodati ad libitum? Questo ultimo grafico
offre un’altra indiretta conferma in merito: l’indice dei credit default swaps sovrani dei mercati emergenti ha appena toccato il massimo da inizio anno, arrivando a 202 punti base. Nel marzo del 2020 toccò il picco di 470, quando vennero imposti i lockdowns. Un bel proxy da tenere sotto controllo nei prossimi giorni. Per ora, accontentiamoci del bicchiere mezzo pieno del TA-35.
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