Regionalismo differenziato: un fallimento tutto italiano?

Erasmo Venosi

20 Maggio 2019 - 13:30

Il regionalismo differenziato: in tema di ambiente potrebbe determinare il fallimento dell’Italia sulla strada dello sviluppo sostenibile

Regionalismo differenziato: un fallimento tutto italiano?

Un problema fondamentale che dovrebbe essere oggetto della massima discussione è quello relativo al cosiddetto regionalismo differenziato (art. 116 Costituzione) in materia di ambiente.

Non tanto per il totale delle risorse economiche eventualmente trasferite che ammontano a meno di due centinaia di milioni di euro, ma per l’importanza delle competenze di cui si chiede il trasferimento.

Regionalismo differenziato introdotto in Costituzione attraverso la riforma del Titolo V nel 2001. Il riferimento è il secondo comma del 116:
“Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119”.

Regionalismo differenziato: materie e settori da gestire

Le materie da gestire in forma autonoma sono 23, ma la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (ed è questo l’elemento di preoccupazione) rientra nella potestà esclusiva dello Stato insieme a istruzione e organizzazione della giustizia di pace.

Emilia Romagna, Lombardia e Veneto hanno sottoscritto a febbraio 2018 con il Governo Gentiloni delle intese per la differenziazione, intese che riguardano 16 materie per l’Emilia Romagna, 20 per la Lombardia e 23 per il Veneto. Altre 7 regioni hanno attivato la procedura per il regionalismo differenziato. Sono: Campania, Lazio, Liguria, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria.

I settori dell’ambiente su cui le tre regioni vogliono una autonomia totale sono: rifiuti e tutela delle acque. Scendendo nei particolari la gestione differenziata regionale riguarda aspetti molto seri. Rilevante è eguagliare i rifiuti urbani a quelli industriali, la distinzione tra rifiuti e sottoprodotti che diventano materiale da riutilizzare. E ancora i criteri affinché un rifiuto cessi di essere tale (End of Waste).

Strano che proprio ora,che il ministero dell’ambiente si è impegnato a produrre decreti per riciclare 51 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno. Il rifiuto costa mente il non rifiuto diventa un ricavo o mancato costo. Un lavoro questo dei decreti che doveva essere già stato prodotto se solo si considera che prima il Consiglio di Stato (1229/2018) e poi la Corte di Giustizia (C-60/18 del 2019) hanno vietato alle regioni di autorizzare gli impianti senza decreti del Governo.

Fiumi di chiacchiere sull’economia circolare, che si impantana sull’inerzia della produzione dei decreti. Emilia, Lombardia e Veneto producono il 43% (57,6 milioni di tonnellate) sul totale dei rifiuti speciali. La Lombardia esporta 881 mila tonnellate di rifiuti speciali, seguita dalla Puglia con 388 mila tonnellate, dal Veneto con 361 mila e dall’Emilia Romagna con 247 mila.

Altra materia, sempre nell’ambito dei rifiuti, che vorrebbero gestire le 3 regioni sono l’utilizzo dei fanghi di depurazione in agricoltura e la firma di accordi tra regioni per la gestione dei rifiuti urbano non differenziati. Utile sapere che la Regione Lombardia, con una delibera di giunta regionale annullata dal TAR aveva aumentato il valore di concentrazione di certi inquinanti nei fanghi di depurazione per consentirne il riutilizzo in agricoltura.

Ulteriori accordi riguardano procedure semplificate, controlli e altro. Alcuni commentatori ritengono positivo questo regionalismo differenziato. A me sembra invece di una gravità estrema confortato in questo da numerose sentenze della Corte Costituzionale sulla trasversalità della materia ambiente e la competenza esclusiva dello Stato.

Inquietante il silenzio su questa importantissima questione da parte delle associazioni ambientaliste e di partiti politici che assumono la questione ambientale come centrale.

A me sembra molto grave nel paese che inserisce nel suo Documento di Economia e Finanza 12 indicatori di “Benessere Equo e Sostenibile” (BES) e che l’ultimo rapporto “ASviS 2018” (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) fotografa un’Italia in grave ritardo rispetto i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile e gli impegni presi nel settembre del 2015 con la sottoscrizione dell’Agenda 2030 dell’ONU.

Peggiorano povertà, disuguaglianze e qualità dell’ambiente. Uso le parole del portavoce di ASviS, l’ex ministro Enrico Giovannini:

“Si sono già persi tre anni per dotarsi di una governance che orienti le politiche allo sviluppo sostenibile. Il 2030 è dietro l’angolo e molti Target vanno raggiunti entro il 2020. Oltre all’immediata adozione di interventi specifici in grado di farci recuperare il tempo perduto sul piano delle politiche economiche, sociali e ambientali, l’ASviS chiede al Presidente del Consiglio di attivare subito la Commissione nazionale per l’attuazione della Strategia per lo Sviluppo Sostenibile, di trasformare il CIPE in Comitato Interministeriale per lo Sviluppo Sostenibile e di avviare il dibattito parlamentare sulla proposta di legge per introdurre il principio dello sviluppo sostenibile in Costituzione, al fine di garantire un futuro a questa e alle prossime generazioni”.

L’Italia sta perdendo la sfida dello sviluppo sostenibile. In particolare, tra il 2010 e il 2016 è peggiorata in cinque aree: povertà (Goal 1), condizione economica e occupazionale (Goal 8), disuguaglianze (Goal 10), condizioni delle città (Goal 11) ed ecosistema terrestre (Goal 15).

Per quattro la situazione è rimasta invariata: acqua e strutture igienicosanitarie (Goal 6), sistema energetico (Goal 7), condizione dei mari (Goal 14) e qualità della governance, pace, giustizia e istituzioni solide (Goal 16). Il regionalismo differenziato in tema di ambiente a me sembra che determinerebbe definitivamente il fallimento dell’Italia sulla strada dello sviluppo sostenibile.

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