Le conversazioni su WhatsApp non sono più semplici scambi informali, ma possono trasformarsi in prove in giudizio. Vediamo come la tecnologia sta ridefinendo la prova documentale.
I messaggi WhatsApp, spesso percepiti come uno spazio di scambio privato, possono invece assumere un peso quando si tratta di stabilire fatti in sede giudiziaria. Cosa succede quando le chat si trasformano in testimoni contro di noi? Mentre la giurisprudenza si evolve per includere queste conversazioni digitali come prove, emergono dibattiti etici e giuridici. La chiave è nella perizia tecnica, essenziale per garantire che i messaggi siano autentici e non manipolati.
Che valore legale hanno i messaggi WhatsApp?
I messaggi WhatsApp, per quanto informali possano sembrare, hanno assunto un ruolo centrale nei procedimenti giudiziari, tanto nel diritto civile quanto in quello penale. La giurisprudenza italiana, evolutasi negli ultimi anni, ha confermato che queste conversazioni digitali possono essere utilizzate come prove documentali, a condizione che rispettino precisi criteri normativi di autenticità e integrità.
In ambito civile, il Codice Civile (artt. 2697 e ss.) stabilisce:
“il principio dell’onere della prova: chi presenta i messaggi deve dimostrare che siano conformi all’originale e che provengano effettivamente dal mittente indicato.”
Ciò significa che gli screenshot, pur essendo comunemente utilizzati, possono risultare insufficienti se non supportati da una perizia tecnica che ne garantisca la conformità.
In ambito penale, la rilevanza dei messaggi WhatsApp è regolata dall’art. 234 del Codice di Procedura Penale, che:
“consente l’acquisizione di documenti, incluse le comunicazioni digitali, per accertare i fatti rilevanti ai fini del giudizio.”
Qui, tuttavia, le garanzie richieste sono ancora più rigorose. La Corte di Cassazione ha stabilito che i messaggi WhatsApp sono:
“tracce informatiche che documentano un fatto storico” e sono quindi ammissibili come prove, purché sia dimostrato che non abbiano subito manipolazioni (Cass. pen. sent. n. 49016/2017).
Come presentare correttamente i messaggi WhatsApp in Tribunale
Perché siano validi, i messaggi devono essere estratti dal dispositivo originale e garantiti da una perizia tecnica che ne certifichi l’autenticità e l’integrità. Infatti, una cattiva gestione di questi passaggi potrebbe compromettere la validità della prova, rendendola inutilizzabile.
La prima regola è conservare il dispositivo originale su cui sono stati inviati o ricevuti i messaggi. Questo perché la giurisprudenza italiana richiede che i messaggi presentati in giudizio siano accompagnati da garanzie di autenticità e integrità (Trib.Napoli sent.n. 3236/2024). Una semplice schermata o uno screenshot può essere utile come documento preliminare, ma per avere valore probatorio pieno è indispensabile certificare che i dati non siano stati alterati. A tal fine, è fortemente consigliato il ricorso a una perizia tecnica informatica, che consente di estrarre i messaggi direttamente dal dispositivo, certificandone l’autenticità. In questo senso, la Corte di Cassazione ha sottolineato l’importanza della perizia tecnica per verificare l’integrità dei messaggi e la loro attribuibilità (Cass. pen. sent. n. 1822/2018)
Un altro aspetto è la cosiddetta catena di custodia. Tale concetto, mutuato dal diritto penale, si applica anche alle prove digitali e garantisce che il dispositivo sia rimasto intatto e non abbia subito manipolazioni durante l’intero processo di acquisizione. Eventuali dubbi su questa catena possono rendere i messaggi inammissibili.
Gli screenshot, ad esempio, possono essere ammessi solo se corredati da una dichiarazione di conformità redatta da un consulente tecnico o da un avvocato. In alternativa, è possibile richiedere l’intervento di un Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU) nominato dal giudice, che svolgerà un’analisi imparziale sulla validità delle prove.
Esempi pratici: quando i messaggi WhatsApp hanno fatto la differenza
I messaggi WhatsApp sono diventati strumenti decisivi in numerosi procedimenti giudiziari. Ecco alcuni esempi concreti:
- cause di separazione e divorzio: i messaggi servono a provare comportamenti che violano i doveri coniugali, come l’infedeltà. Il Tribunale di Milano ha riconosciuto una serie di conversazioni come prova determinante per dimostrare la violazione del vincolo di fedeltà, ai fini dell’assegnazione dell’assegno di mantenimento;
- controversie lavorative: i messaggi servono a dimostrare il mobbing, ordini illegittimi o promesse contrattuali disattese;
- frodi contrattuali e recupero crediti: i messaggi possono essere decisivi in controversie su inadempimenti contrattuali. Il Tribunale di Napoli ha riconosciuto una chat come prova autentica di un accordo di pagamento successivamente disatteso, grazie alla verifica del dispositivo originale e del mittente;
- controversie commerciali e digitali: i messaggi WhatsApp sono uno strumento per dimostrare trattative o accordi non rispettati. Un imprenditore ha utilizzato messaggi WhatsApp per provare che l’altra parte aveva confermato i termini contrattuali, vincendo una controversia commerciale.
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Cosa fare se la controparte contesta l’autenticità dei messaggi?
Quando la controparte contesta l’autenticità dei messaggi WhatsApp, si entra in una fase delicata in cui il giudice è chiamato a valutare se i messaggi possono essere una prova valida. L’eccezione di inammissibilità della prova digitale deve essere sempre formale e specifica. Infatti, l’art. 2712 c.c. stabilisce che:
“la parte che nega l’autenticità dei messaggi ha l’obbligo di indicare in modo dettagliato le motivazioni del proprio rifiuto, ad esempio sostenendo che i messaggi siano stati manipolati o che non provengano dal mittente dichiarato.”
In altre parole, una semplice contestazione generica non è sufficiente a invalidare la prova.
In questi casi, la soluzione più efficace è ricorrere a una perizia tecnica informatica, che consente di analizzare i dati digitali in modo approfondito. Il perito esaminerà il dispositivo originale da cui provengono i messaggi, verificandone la catena di custodia e l’assenza di manipolazioni. Inoltre, attraverso l’analisi dei metadati (informazioni nascoste nei file, come data e ora dell’invio), sarà possibile confermare l’autenticità delle conversazioni e identificarne il mittente.
Se il giudice ritiene che la controversia sull’autenticità richieda una valutazione più approfondita, può nominare un Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU), una figura imparziale incaricata di effettuare verifiche tecniche aggiuntive. Il CTU ha il compito di analizzare le prove digitali e presentare una relazione dettagliata che aiuti il giudice a prendere una decisione fondata.
Va inoltre ricordato che, in base all’art. 191 c.p.c., le prove acquisite in modo illecito – ad esempio, se un dispositivo è stato violato senza autorizzazione – sono dichiarate inammissibili.
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I messaggi vocali su WhatsApp hanno lo stesso valore probatorio dei messaggi scritti?
I messaggi vocali inviati tramite WhatsApp possono avere un valore probatorio equivalente a quello dei messaggi scritti. La giurisprudenza ha più volte confermato che i messaggi vocali rientrano nella categoria delle «riproduzioni fonografiche» disciplinate dall’art. 2712 c.c. Quindi, sono validi come prova documentale, salvo che la controparte ne contesti formalmente la conformità o la genuinità.
Per rendere i messaggi vocali utilizzabili in giudizio, è necessario che siano estratti dal dispositivo originale e presentati in un formato che ne garantisca l’autenticità. Una recente pronuncia del Tribunale di Urbino del 7 giugno 2024 ha riconosciuto che:
“i messaggi vocali possono essere utilizzati come prova a pieno titolo, purché siano presentati con adeguate garanzie tecniche. La trascrizione del messaggio deve essere fedele al contenuto originale e che ogni eccezione d’inammissibilità della prova basata sull’autenticità deve essere supportata da prove concrete.”
Le conversazioni su altre piattaforme di messaggistica hanno lo stesso valore legale?
Le conversazioni effettuate tramite piattaforme di messaggistica diverse da WhatsApp, come Telegram, Signal o Facebook Messenger, possono avere lo stesso valore legale di quelle inviate su WhatsApp, purché rispettino i requisiti normativi e processuali di autenticità, integrità e provenienza. Ciò che distingue le varie piattaforme non è il loro valore legale intrinseco, ma le caratteristiche tecniche che possono influenzare la facilità con cui le prove vengono estratte e certificate.
Ad esempio, alcune piattaforme, come Signal, utilizzano sistemi di crittografia avanzata e non conservano le comunicazioni sui server in modo accessibile. Questo può rendere più complessa la raccolta di messaggi per finalità giudiziarie. Telegram, invece, offre chat segrete che non sono sincronizzate sui server e quindi non possono essere recuperate se non dal dispositivo originale.
La Cassazione ha stabilito che il formato digitale non inficia la validità della prova, purché sia garantita la sua affidabilità tecnica. Pertanto, il valore legale dei messaggi non dipende dalla piattaforma utilizzata, ma dalla loro presentazione e dalle modalità di acquisizione (Cass. sent. n. 49016/2017)
Uno dei cambiamenti più significativi in ambito tecnologico riguarda l’adozione di tecnologie come la blockchain. Grazie alla sua capacità di creare registri immutabili e trasparenti, la blockchain consente di certificare l’autenticità e l’integrità delle prove digitali. Ad esempio, una conversazione WhatsApp registrata su una blockchain non potrebbe essere alterata senza lasciare traccia, garantendo così al giudice una sicurezza quasi assoluta sull’autenticità del contenuto.
È possibile utilizzare messaggi WhatsApp ottenuti senza il consenso del proprietario?
L’uso in Tribunale di messaggi WhatsApp acquisiti senza il consenso del loro proprietario è un tema delicato che coinvolge il bilanciamento tra il diritto alla prova e il diritto alla privacy. L’acquisizione non autorizzata di messaggi WhatsApp può configurare una violazione dell’art. 15 della Costituzione, che tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza, nonché del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) e del Codice della Privacy (D.lgs. 196/2003). Questi strumenti normativi riconoscono il diritto del proprietario del dispositivo o dell’account alla riservatezza delle comunicazioni. Pertanto, l’accesso ai messaggi senza autorizzazione potrebbe comportare conseguenze sia civili che penali.
In ambito penale, l’art. 615-ter del codice penale punisce l’accesso abusivo a sistemi informatici o telematici, mentre l’art. 616 c.p. sanziona la violazione, sottrazione o soppressione di corrispondenza.
Ne consegue che:
“se i messaggi siano stati ottenuti in violazione della legge, questi potrebbero essere dichiarati inutilizzabili in giudizio ai sensi dell’art. 191 c.p.p., che sancisce il principio dell’inutilizzabilità delle prove acquisite illecitamente.”
Nel processo civile, le regole di ammissibilità delle prove richiedono che i messaggi siano ottenuti in modo lecito. Anche qui, qualora siano stati raccolti senza il consenso del proprietario, il giudice potrebbe dichiararli inammissibili. Quindi, per evitare rischi di esclusione della prova o di incorrere in responsabilità legali, è fondamentale che le conversazioni WhatsApp siano acquisite con il consenso del proprietario o mediante autorizzazione giudiziaria, ad esempio attraverso il sequestro del dispositivo o l’autorizzazione per intercettazioni.
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