Il «tabù balneari» che può fare deragliare il Pnrr. E il pericolo di un Nord senza voce

Mauro Bottarelli

7 Novembre 2021 - 07:00

La deroga per le concessioni demaniali nel Dl Concorrenza apre scenari di mediazione forzata rispetto ai ritardi già palesati dal Sud sugli investimenti con fondi Ue. Ma se ora la ripresa rallenta..

Il «tabù balneari» che può fare deragliare il Pnrr. E il pericolo di un Nord senza voce

In sé, la questione non è di quelle che fanno pendere il piatto della bilancia del conti pubblici. Politicamente, però, rappresenta una lettera scarlatta. Ancor di più, se ad accodarsi al carro delle deroghe e dei rinvii è un governo europeista che più europeista non si può.

Il Dl Concorrenza ha toccato più o meno tutti, più o meno duramente: dai notai ai taxisti, tutte le categoria a maggior rischio di rendita di posizione hanno visto erosa qualche certezza. Tutte tranne una: i balneari. Ovvero, le concessioni demaniali per le spiagge, settore che in Italia non conosce il concetto di mercato o concorrenza, appunto. E anche questa volta, si è preso tempo. Sei mesi di operazione trasparenza per compiere una mappatura di tutte le concessioni in essere. Poi, si vedrà. Di fatto, lo stesso stratagemma utilizzato per evitare inciampi politici sulla riforma del catasto. L’Europa, però, non ci sta. E chiede a Roma di fare in fretta nel mettersi in regola.

Anche perché, a onor del vero, il contenzioso sulla materia con Bruxelles è aperto dal 2009. Da allora, le concessioni balneari sono diventate una sorta di tabù inviolabile. Tanto che nel 2016, la risposta italiana a una sentenza della Corte di Giustizia Ue fu la proroga alle autorizzazioni vigenti fino al 2033 e il divieto per le autorità locali di avviare o proseguire procedimenti pubblici di selezione per le assegnazioni. Di fatto, la casta delle caste. Anche perché l’unico provvedimento di regolamentazione del settore posto in essere nel nostro Paese è rappresentato dall’introduzione del canone minimo annuale, passato da quest’anno da 362,90 euro a 2.500 euro. All’anno. Magari in Costa Smeralda o Forte dei Marmi. Le cifre sono giuste, nessun refuso.

E per quanto la decisione appaia oltraggiosa, ancora peggiore è il motivo che ha spinto il governo dell’epoca a prenderla. Stando a dati dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nel 2019 su un totale di 29.689 concessioni demaniali marittime, ben 21.581 erano soggette ad un canone inferiore a 2.500 euro annui e per lo stesso anno l’ammontare complessivo dei canoni concessori è stato pari a 115 milioni di euro. Nel Paese patria del turismo e con qualche migliaio di chilometri di spiagge. Ma neppure il governo del migliori ha avuto il fegato di sfidare le barricate del centrodestra sull’argomento, preferendo quindi la strada della mappatura. Un bel calcione al barattolo, insomma. Oltretutto, in nome della trasparenza.

Cosa ci dice questa vicenda? Che questo Paese sta sottovalutando il 2022. Per due motivi. Il primo fa riferimento al numero già enorme di Comuni e Regioni del Mezzogiorno che hanno lanciato l’allarme riguardo la loro incapacità operativa di dare attuazioni ai piani finanziati dall’Europa in seno a Pnrr: tradotto, c’è il forte rischio che il tesoretto pandemico faccia la fine di tutti gli altri fondi Ue. Inutilizzati. E destinati a tornare alla casamadre. Gli enti locali, in quanto soggetti attuatori, gestiranno infatti direttamente importi compresi tra i 66 e i 71 miliardi di euro, tra il 34,7% e il 36,9% dei fondi destinati all’Italia. Di questi, il 40% dovrà essere destinato al Sud. Ma organici insufficienti e uffici tecnici senza le specifiche competenze stanno già oggi mettendo a rischio l’intera impalcatura. Tanto che il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, ha minacciato le dimissioni, se il governo non stanzierà subito fondi e personale per la sua amministrazione. Perché senza risposte, è come fare la Formula 1 senza benzina, la sua metafora.

Secondo motivo, lo mostrano questi due grafici:

Comparazione tra spread Btp-Bund e volatilità del decennale italiano Comparazione tra spread Btp-Bund e volatilità del decennale italiano Fonte: Bloomberg
Comparazione tra spread Btp-Bund e aspettativa sui tassi Bce a 1 anno Comparazione tra spread Btp-Bund e aspettativa sui tassi Bce a 1 anno Fonte: Bloomberg

per quanto sia ormai certo che la Bce non staccherà la spina del Pepp dopo il 31 marzo prossimo, quanto avvenuto al nostro spread la scorsa settimana ha rappresentato per tutti uno spoiler decisamente serio. Tanto da aver spinto Bloomberg a dedicare un approfondimento al tema, dal titolo Europe’s favorite risk gauge is warning of rocky end to stimulus. Perché per quanto le continue ondate di Covid garantiscano materiale di supporto alla narrativa dell’Eurotower rispetto ai rischi di uno scale back troppo prematuro, se l’inflazione dovesse risultare tutt’altro che transitoria anche per i primi due trimestri del prossimo anno, qualcuno sarà costretto a riportare Christine Lagarde sulla Terra. Anzi, a lezione di economia. Primo anno.

A quel punto, annunci e rassicurazioni peseranno come una piuma, perché il mercato comincerà a prezzare il premio di rischio in base a dinamiche macro e non manipolazioni monetarie. E quella fiammata di spread appena vissuta, potrebbe conoscere una replica ben più drastica. Il tutto, dipendente da un’enorme variabile: Mario Draghi sarà ancora alla guida del governo o al Quirinale? Il rischio maggiore, paradossalmente, è che l’Italia si trovi totalmente con la guardia abbassata a causa di un 2021 vissuto in punta di eccessivo entusiasmo: a quel punto, una crisi auto-alimentante è purtroppo nei numeri. E nei precedente di questo Paese, 2011 in testa.

Certo, al momento non si vede un altro caso Grecia all’orizzonte ma il rallentamento dell’economia può minare le fondamenta in maniera carsica. Al primo default su progetti del Pnrr inattuabili per carenze strutturali, qualcuno a Bruxelles potrebbe alzare la voce. E questa volta non solo tra i falchi, magari anche fra i Paesi amici che potrebbero avanzare pretese su quei fondi in viaggio di ritorno forzato da Roma. Se si arrivasse a questo, a uno stallo che non necessita di attacchi speculativi esterni o crisi sistemiche del sistema bancario, come reagirebbe un Nord che già si vede tagliato fuori dal Pnrr e totalmente orfano di rappresentanza territoriale diretta?

Il vecchio progetto alla tedesca che Rocco Buttiglione consigliò a Umberto Bossi, tramutare la Lega nella CSU italiana all’interno di un centrodestra in versione CDU, oggi più che mai potrebbe garantire l’argine istituzionale a un malcontento che un’eventuale tracimazione nel 2022 della crisi della supply chain genererebbe in un Settentrione che industrialmente vive un vincolo quasi simbiotico con l’industria tedesca. Perché se il tabù balneari dovesse spingere il governo - chiunque lo guidasse - a uno sforzo unidirezionale verso il Mezzogiorno, al fine di salvare il salvabile dei fondi Ue garantendone a pioggia di interni per le logistiche necessarie, allora Regioni che non più tardi dell’ottobre 2017 votarono a favore dell’autonomia potrebbero vedersi costrette a un pericoloso muro contro muro.

Senza mediazione istituzionale a livello centrale. Il rischio, per chi conosce il Nord, è alto. Per questo, alla luce dell’ultimo scontro, appaiono lunari le analisi per capire chi sarà il futuro leader fra Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti: a guidare la Lega, nell’assetto attuale o forzatamente rinnovata, sarà uno tra Luca Zaia e Massimiliano Fedriga. A furor di Pil.

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