Le grandi farm del mining, ma anche gli istituti finanziari che prestano servizi in criptovaluta. Le autorità cinesi imprimono la stretta e affossano le divise digitali, da Bitcoin ad Ethereum.
Scacco matto della Cina. Nel pomeriggio di ieri le autorità del Dragone hanno innescato un altro pullback in doppia cifra per le criptovalute, con il Bitcoin che si è ritrovato a cedere fino al 9%. A fondo anche le varie Ethereum, Dogecoin e Binance Coin, che scambiavano ancora in forte ribasso dopo lo stop ai crypto-pagamenti di Elon Musk.
Ma come si articola la stretta di Pechino, spilla che potrebbe far scoppiare la (presunta) bolla di BTC&Co.? E quali sono le ragioni – politiche, economiche e ambientali – che muovono il Governo centrale e la Pboc? Ecco tutto quello che c’è da sapere.
1. Giro di vite sul mining di criptovalute
Di base, sono due le direttrici che i vertici di Pechino stanno seguendo per mettere i sigilli al crypto-mercato cinese. Una di queste è relativa all’industria del mining, ovvero alle farm che estraggono i token facendo ricorso a computer rig ad altre prestazioni. Una questione non di poco conto: la Cina, secondo le rilevazioni del Cambridge Bitcoin Consumption Index, incide per il 65% sull’hash rate del BTC, ovvero la velocità con la quale un miner raggiunge l’hash.
Le alte sfere cinesi stanno però cercando da tempo di stringere le maglie attorno all’industria. Prima nella Regione uigura dello Xinjiang, prima Bitcoin mining area del Dragone, poi nelle Provincie di Qinghai e Yunnan. E lo scorso venerdì, ultima a recepire le direttive governative sulle estrazioni, si è aggiunta anche l’area sud-occidentale di Sichuan. Un risiko che potrebbe innescare a stretto giro l’esodo delle big farm cinesi, direzione Texas.
Il punto è che, come noto, il mining comporta consumi di energia non indifferenti, pari secondo alcuni studi a quelli della Finlandia e della Svizzera. E non è un caso che anche un bull della prima ora come Elon Musk, allertato sul Bitcoin energivoro, abbia deciso di estromettere la crypto dai sistemi di pagamento accettati da Tesla (salvo poi fare una parziale retromarcia).
E sebbene non manchino le obiezioni, visto che altri studi documentano come il 39% dell’energia impiegata derivi in realtà da fonti rinnovabili, la faccenda rischia di minare il piano di neutralità rispetto al carbonio della Cina. Ben inteso, non è solo una questione ambientale: come rivelato dalla Pboc, infatti, le criptovalute “rompono l’ordine finanziario e generano anche rischi di attività criminali come trasferimenti illegali di attività transfrontaliere e riciclaggio di denaro”.
2. Stop ai servizi in criptovaluta
Insomma, più o meno quanto ribadito a più riprese dalle varie BCE, Fed e Tesoro USA. E qui arriviamo al terremoto di ieri, ovvero il richiamo all’ordine della Pboc alle banche Commercial Bank of China, Agricultural Bank of China, China Construction Bank, Postal Savings Bank e Industrial Bank, ma anche ai servizi di pagamento elettronici come Alipay di Jack Ma. Un messaggio chiaro: è tempo di applicare il divieto governativo sui servizi in criptovaluta, annunciato lo scorso maggio.
Un bando che da Pechino spiegano con la necessità di tutelare il sistema finanziario statale dai rischi insiti nel crypto-mercato, e che ieri è stato recepito da alcuni dei più importanti istituti finanziari del Paese, dopo le sollecitazioni della Pboc. Le transazioni in Bitcoin e altre criptovalute verranno dunque bloccate, e chiusi i conti connessi alle crypto-attività.
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