Il Governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, mette in guardia Governo e giovani paventando il rischio della disoccupazione di massa nel 2016 e negli anni futuri, se non si coglieranno le opportunità delle nuove tecnologie.
Mentre il Governo, in una sbornia autocelebrativa, festeggia il risultato ottenuto nella votazione della legge elettorale, a pochi giorni dai preoccupanti dati emanati dall’Istat sulla disoccupazione in Italia nel primo trimestre 2015, un osservatore tanto acuto quanto scomodo mette in guardia l’Esecutivo ma, soprattutto i giovani, su quello che potrebbe essere il desolante scenario del Belpaese nei prossimi anni.
Il Governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, che più volte ha puntato il dito sulla corruzione italiana, intervenuto ieri alla Luiss, per la presentazione di un libro dedicato al tema dell’innovazione (Riccardo Varaldo,“La nuova partita dell’innovazione), tema questo su cui lo stesso Visco ha pubblicato recentemente un saggio, ha parlato del pericolo di una disoccupazione di massa nei prossimi anni.
Visco ha spiegato che la società italiana come tutti i Paesi Occidendali che attraversano l’era del capitalismo avanzato, attraversa un «tempo di transizione che non sarà così breve»: si tratta del tempo di transizione necessario per abbandonare il modello fordista, ormai destinato a scomparire e per entrare, volenti o nolenti, nell’era del postfordismo e dell’economia dei servizi. In questo tempo, stimato da Visco tra i 10 e i 20 anni, un lavoro su due scomparirà e anche parte dei lavori dell’industria manifatturiera sono destinati a scomparire.
Cosa resta allora se, al già preoccupante tasso di disoccupazione, si aggiungerà anche la scomparsa di quelle professionalità destinate a diventare obsolete? L’innovazione che
«crea lavoro, ma senza creare le condizioni e investire rischiamo una disoccupazione di massa»
Il futuro dell’occupazione in Italia è un futuro difficile e accidentato dal momento che il nostro Paese è, innanzitutto, soggetto a un forte ritardo culturale:
«uno dei limiti più grossi per cui le imprese italiane non hanno colto i vantaggi della globalizzazione e non sono state dietro al cambiamento tecnologico, sta nella natura delle imprese ma anche nell’ambiente esterno. Se anche si creasse un ambiente favorevole alle imprese e un cambiamento di mentalità ci troveremmo comunque con un forte ritardo culturale»
Un ritardo che in gran parte dipende ancora dal basso livello di scolarizzazione dei lavoratori italiani:
«l’alfabetizzazione degli adulti italiani è molto bassa: il 70% degli italiani non comprende ciò che legge o non sa come usare le informazioni scientifiche e tecnologiche che possiede. Siamo molto indietro»
Al fattore culturale si aggiunge, poi, quello economico: il tessuto imprenditoriale italiano, secondo Ignazio Visco, è caratterizzato dall’incapacità di innovare, un’incapacità propria delle imprese che, in molti casi non riescono a crescere proprio perché non sono a conoscenza di tutti gli strumenti di cui potrebbero disporre:
«Negli Stati Uniti le imprese nascono piccole come in Italia e hanno la stessa mortalità, una su due dopo un certo periodo muore. Ma se negli Usa un’impresa comincia con 10 addetti dopo due anni questi sono 26, mentre in Italia sono 12. Questo dipende dal capitale con cui quell’impresa viene sostenuta: noi abbiamo cercato di ridurre la fiscalità sul capitale di rischio ma è drammatico che questa cosa non si sappia e che non ci sia informazione sufficiente nemmeno da parte di chi potrebbe beneficiarne»
Non solo, un altro drammatico problema delle imprese italiane che determina la loro (mancata) crescita e il loro (mancato) sviluppo sono gli scarsi investimenti sul capitale umano. Se non si investe in capitale umano non sarà possibile portare nelle aziende quelle capacità, frutto dell’alta specializzazione, di usare competenze diverse e, quindi, non sarà possibile innovare e, in ultima istanza, sopravvivere alle sfide della modernità.
Le cause di questo mancato investimento in capitale umano, da cui dipende l’innovazione, risiedono secondo Ignazio Visco, nelle scelte di politica economica che sono state messe in campo in Italia e, soprattutto, nelle modalità con cui è stata attuata la flessibilità sul mercato del lavoro:
«già investire in capitale umano rende molto poco in Italia perché l’impresa vede che non c’è convenienza a investire su quelli che più sanno. Dall’altro lato il maggior disincentivo a investire è venuto dal modo in cui è stato reso flessibile il mercato del lavoro: alle piccole imprese è convenuto investire in contratti part-time e precari per prendere giovani e fargli fare le stesse cose che facevano gli anziani. Chi doveva investire su se stesso ha pensato che non fosse conveniente farlo»
La flessibilità del mercato del lavoro italiano ha disincentivato le imprese a investire in innovazione e, quindi, ha, in definitiva, determinato un ritardo nel tessuto imprenditoriale italiano che, se non dovesse essere colmato in tempi brevi, avrà conseguenze preoccupanti sulla disoccupazione nel nostro Paese.
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