Le proteste in Kazakistan hanno causato notevoli rallentamenti nel mining di Bitcoin. Si prevede che la maggior parte dei miner possa abbandonare il Paese.
Le rivolte che stanno mettendo a ferro e fuoco il Kazakistan mostrano i primi effetti anche sul Bitcoin: il blocco di internet disposto dalle autorità di Nur-Sultan ha comportato l’interruzione del mining, con un conseguente tonfo del prezzo di BTC sotto i 42.000 dollari. Si tratta di un duro colpo sia per la crypto che per il lavoro dei miner, i quali già da tempo avevano posto l’accento sull’inadeguatezza delle infrastrutture elettriche nazionali per l’alimentazione dei crypto hub.
I problemi delle mining farm non sono che l’ultima grana per il governo del presidente Qasym Tokaev, al quale una parte della cittadinanza non perdona l’aumento del prezzo del gas e la prosecuzione delle politiche del suo predecessore Nursultan Nazarbaev, che ha guidato la nazione per quasi trent’anni in maniera poco democratica.
Stop al mining in Kazakistan: cos’è successo?
Negli ultimi giorni il presidente kazako Tokaev ha intensificato gli sforzi per reprimere l’azione dei manifestanti, ordinando anche un massiccio blocco di 36 ore per i portali web e per ogni applicazione di messaggistica istantanea, come WhatsApp, Telegram e persino l’app cinese WeChat, che non era mai stata colpita da provvedimenti simili prima d’ora. Il blocco non ha risparmiato le mining farm kazake, che contribuiscono per quasi un quinto all’estrazione globale di Bitcoin e altre valute digitali.
Nell’ex repubblica sovietica sono presenti decine di migliaia di aziende cinesi di crypto mining, che avevano scelto di operare in Kazakistan in funzione della vicinanza con la madrepatria e dell’atteggiamento molto accondiscendente del governo verso i miner, elementi ai quali si somma anche il costo contenuto dell’elettricità derivante dallo sfruttamento dei giacimenti di carbone. Purtroppo però nei mesi passati è emersa la difficoltà della rete elettrica nazionale nel fornire energia ai minatori, e le autorità sono state costrette a importare elettricità dalla Russia e a considerare l’apertura di nuove centrali atomiche per scongiurare futuri black out.
Al momento, di scrittura dell’articolo, le quotazioni di Bitcoin si muovono di poco sopra i $42.000 dopo essere scese attorno ai $41.450. Da inizio anno le prima criptovaluta del mercato da perso il 13% del suo valore, e gli analisti seguono con estrema attenzione l’evolversi della situazione, dato che nuovi blocchi sul mining potrebbero affossare nuovamente BTC.
Si prevede l’esodo dei miner verso gli USA?
Sempre più esperti concordano sul fatto che le principali mining farm del paese si sposteranno presto altrove, e gli Stati Uniti sono i principali candidati a ospitarne il maggior numero. Gli USA hanno già beneficiato enormemente dei divieti sul mining disposti dalla Cina, e secondo i dati dell’Università di Cambridge, su suolo americano si concentra poco più del 35% della quota mondiale del mining di Bitcoin.
La quota kazaka del crypto mining è pari al 18%, e qualora dovesse verificarsi l’esodo totale dei miner verso gli USA, quest’ultimi arriverebbero a detenere oltre la metà dell’hash rate complessivo. Non è tuttavia da escludere che molti minatori possano essere accolti in Canada, paese in cui molte società di mining possono ottenere energia generata dalle migliaia di centrali idroelettriche operative sul territorio. La Russia è il terzo Paese più popolare tra i miner, ma restano ancora alcuni nodi da sciogliere sul mining eseguito all’interno dei suoi confini, dato che di recente la Banca Centrale di Russia aveva consigliato l’adozione di regole draconiane sulle criptovalute.
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