Mosca scarica dollari e apre al petro-euro. Mentre la Cina monopolizza anche il green

Mauro Bottarelli

5 Giugno 2021 - 13:00

Il Fondo sovrano russo azzera tutti gli asset liquidi in valuta statunitense, aumentando la detenzione di moneta unica e yuan. E mentre Putin minaccia accordi energetici de-dollarizzati, gli Usa si trovano costretti a fronteggiare una silenziosa offensiva cinese nell’ambito solare e negli investimenti in ricerca e sviluppo. L’International Economic Forum di San Pietroburgo quest’anno ha regalato scintille. Bluff o sfida reale?

Mosca scarica dollari e apre al petro-euro. Mentre la Cina monopolizza anche il green

La Davos dell’Est. L’International Economic Forum di San Pietroburgo doveva diventare questo, almeno nelle intenzioni di Vladimir Putin. Ma il clima da sanzioni permanenti in cui gravita la Russia ha finora minato alla base questa aspettativa del Cremlino, ridimensionando la portata del simposio di inizio estate e relegandolo a kermesse di contorno. Sarà quindi per sfatare questa nomea che il ministro delle Finanze russo, Anton Siluanov, ha deciso di sganciare una vera e propria bomba dal palco inaugurale: il Fondo sovrano moscovita, dopo aver ottenuto luce verde dalla Duma per investimenti diretti in oro, scaricherà tutti i dollari e gli assets denominati in dollari, aumentando le detenzioni in euro, yuan e metalli preziosi.

Di fatto, la sempre minacciata de-dollarizzazione dell’economia russa si è dotata di un primo passo concreto. Possiamo compiere questo cambiamento in un tempo relativamente breve, direi entro un mese, ha confermato Siluanov. La ragione? Reazione diretta all’ulteriore inasprimento del regime sanzionatorio deciso dall’amministrazione Biden. Una mossa che andrà a impattare su detenzioni totali pari a 119 miliardi di dollari (185,9 miliardi di controvalore, includendo nel calcolo anche gli assets illiquidi) ma che non avrà pressoché conseguenze dirette e visibili sul mercato: il Fondo, infatti, opererà lo shift tramite la Banca centrale attraverso una operazione meramente tecnica di trasferimento in valuta estera, in modo tale da garantire anche una limitazione della visibilità rispetto ai suoi futuri investimenti.

Invisibile. Ma non a livello simbolico. Come mostrano questi grafici,

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Fonte: Bloomberg

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Fonte: Bloomberg
il cambiamento vedrà azzerati gli assets liquidi in dollari che oggi pesano per un 35% delle detenzioni, pari a circa 41,5 miliardi. E se oggi l’euro può vantare la medesima percentuale del biglietto verde, la nuova denominazione lo vedrà salire al 40%, seguito dal 30% in yuan, 20% in oro e il 5% rispettivamente per yen e sterlina. Il tutto in un contesto generale che già nel 2020 ha visto le detenzioni auree russe superare in controvalore le riserve in dollari della Banca centrale, da anni ormai fortemente attiva sul mercato dell’oro fisico proprio nell’ottica di una diversificazione tutta politica dalla valuta statunitense.

Ma non basta. Intervenendo venerdì alla seconda giornata di lavori del forum, Vladimir Putin ha alzato l’asticella della sfida, sottolineando come gli Stati Uniti utilizzino il dollaro come strumento di guerra economica e politica. In tal senso, la Russia potrebbe considerare l’ipotesi di accordi in valute nazionali o in euro per gas e petrolio. Se le aziende energetiche russe smettessero di utilizzare il dollaro, questo rappresenterebbe un durissimo colpo per la moneta statunitense. Ma noi non vogliamo questo. Insomma, se il presidente russo intendeva creare i presupposti per un incontro ostile con il presidente Usa il prossimo 16 giugno a Ginevra, pare avere colto nel segno. Perché per quanto l’inquilino di Pennsylvania Avenue abbia finora sottolineato soprattutto il tema dei diritti umani, la questione petrolifera sta tornando di grande attualità anche Oltreoceano.

A confermarlo, citato da Bloomberg, è stato Bob McNally, ex funzionario della Casa Bianca, a detta del quale stiamo assistendo a una significativa escalation da stigmatizzazione a criminalizzazione degli investimenti nel ramo petrolifero. Di fatto, una risposta all’agenda Roadmap to Net Zeto to 2050 dell’IEA (International Energy Agency), la quale intende infatti perseguire la politica dello stop immediato a nuove operazioni nel campo fossile, al fine di azzerare le emissioni entro i prossimi 30 anni. Se così fosse realmente, dove andrebbe a finire il prezzo del petrolio a breve? Diciamo 200 dollari al barile? E il prezzo del gas, dove finirebbe? Alle stelle, ha dichiarato il vice-primo ministro russo, Alexander Novak, parlando sempre al simposio di San Pietroburgo.

E se il ministro dell’Energia del Qatar, Saad Sherida Al Kaabi, nella medesima sede ha definito l’euforia verso la transizione energetica una dinamica pericolosa e foriera di un’esplosione dei prezzi, ancor più sprezzante è stato l’omologo saudita, Principe Abdulaziz bin Salman, a detta del quale la road map dell’IEA rappresenta uno scenario da la-la-land. Proprio ieri mi hanno chiesto se il petrolio è ormai morto e la mia risposta è stata che stiamo aumentando investimenti e capacità produttiva. Sabotaggio in sede Opec+ dell’agenda green tanto cara agli Usa? Difficile capire quanto il confine fra vera minaccia e bluff sia labile. Ma che gli Stati Uniti comincino a patire un certo senso di accerchiamento geo-politico appare palese, quantomeno se si guarda proprio al comparto strategico dell’energia.

Se infatti la Russia gioca le proprie carte petrolifere a Vienna, utilizzando gli alleati Usa nel Golfo come partner strategici - ognuno in base ai propri desiderata e ricatti nei confronti di Washington -, questi due grafici

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Fonte: Bloomberg

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Fonte: Statista
mostrano come la Cina abbia giocato pesantemente d’anticipo rispetto proprio alla svolta green. Con i tre quarti della fornitura di pannelli solari saldamente in mano a Pechino, infatti, il rischio è quello di ritrovarsi fra l’incudine e il martello. E quanto sia concreta la minaccia lo conferma la denuncia di Kyle Bass, guru degli hedge fund, il quale ha fatto appello alla Casa Bianca affinché prenda le provvedimenti rispetto al mega-progetto eolico Blue Hills Wind in Texas, interamente in mano alla GH America Investments Group, azienda che a sua volta fa capo a Sun Guangxin, facoltoso uomo d’affari originario dello Xinjiang e con radicati rapporti con il Politburo di Pechino.

L’accusa? Potenziale spionaggio militare e attività di sabotaggio della rete energetica, oltretutto a poche settimane dall’attacco hacker contro Colonial Pipeline. E in effetti, il mega-impianto si trova nella Val Verde County, circa 30 miglia da uno strategico punto di confine con il Messico e solo a 65 dalla Laughlin Air Force Base, la base dell’aeronautica più grande degli Usa e adibita all’addestramento dei piloti da combattimento. E che la denuncia di Bass sia stata recepita decisamente sul serio lo dimostrerebbe la decisione di Joe Biden di ampliare la blacklist di aziende cinesi approntata a suo tempo da Donald Trump, presa con ordine esecutivo in vigore dal prossimo 2 agosto e concentrata su ambiti specifici: sarà infatti vietato investire nel gigante degli smartphone Huawei, la produttrice di telecamere di sorveglianza Hikvision, il produttore di chip SMIC ma anche gli operatori telefonici China Mobile, China Telecommunications e China Unicom.

La stessa Casa Bianca ha chiarito che la decisione è stata assunta per rispondere alla minaccia inusuale e straordinaria rappresentata dalle tecnologie di sorveglianza cinesi. E questo altro grafico

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Fonte: Bank of America
pare mettere impietosamente la situazione in prospettiva: per la prima volta in assoluto, gli investimenti annuali cinesi in ricerca e sviluppo hanno superato quelli degli Stati Uniti (501 miliardi contro 493) e se il trend dovesse rimanere tale e sedimentare, entro il 2025 il fossato fra le due potenze si amplierebbe a 304 miliardi di differenza (916 miliardi per Pechino contro i 612 di Washington). E che Washington abbia fiutato la malaparata e stia già lavorando alla controffensiva lo dimostra l’ultimo sondaggio YouGov,

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Fonte: YouGov
in base al quale oggi - dopo dieci giorni di martellamento mediatico sul tema - la maggioranza degli statunitensi pare convinta che il Covid sia frutto di un esperimento di laboratorio cinese.

Insomma, un misto fra Risiko e War games in pieno svolgimento. Con due variabili. La prima rappresentata dall’esercitazione Nato denominata Sea Breeze che si terrà dal 28 giugno al 10 luglio nel Mar Nero: a detta del portavoce del Ministero della Difesa russo, il maggiore generale Igor Konashenkov, infatti, gli Usa sfrutterebbero l’occasione per rifornire di armamenti pesanti l’Ucraina e i paramilitari fedeli a Kiev. Secondo, come reagirà l’Europa all’avance di Vladimir Putin rispetto a un petro-euro, dopo il via libera proprio di Joe Biden al completamento del gasdotto North Stream 2 e alla luce dello spionaggio Usa dei leader europei tramite la Danimarca? War games, appunto.

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