Istituzionalizzare il super green pass in ambiti strutturali della società implica il superamento dell’orizzonte temporale di emergenza. E opporsi allo smart working nel boom dei contagi, lo conferma
Difendiamo il Pil che cresce. Con questo alibi formalmente inattaccabile - pena l’iscrizione automatica nella lista dei nemici della Patria -, domani Mario Draghi cercherà di abbattere le residue resistenze di Lega e Cinque Stelle all’introduzione di obbligo di super green pass sui posti di lavoro.
L’atto finale. A meno di non voler contemplare anche le deportazioni fra le ipotesi al vaglio. Inattaccabile, appunto. Ma anche alibi. Appunto. Perché se la ratio di espellere a freddo e preventivamente dal ciclo produttivo lavoratori di fatto sani per preservare il Pil appare oscura, la coperta di Linus sanitaria mostra platealmente i piedi del governo di fronte all’intransigenza con cui il ministro Brunetta si oppone al ritorno parziale allo smart working. Se per difendere l’economia occorre bloccare i contagi, perché dire no a un’organizzazione del lavoro che opera in tal senso e che gode già di un rodaggio consolidato dalla prima ondata?
Eppure, sindacati e datori di lavoro sono d’accordo con il presidente del Consiglio. I primi chiedendo l’introduzione di obbligo vaccinale, i secondi addirittura invocando - come fatto dal fondatore di Brembo, Alberto Bombassei - l’allontanamento dalle fabbriche di tutti i non vaccinati. I quali, in età attiva di lavoro, sarebbero circa 2,5 milioni di persone su quasi 5 di totalmente esenti da immunizzazione (o presunta tale, alla luce dei numeri). Tanti. Magari non in grado di bloccare il Paese ma certamente di rallentare pesantemente l’erogazione di servizi, basti vedere il caos aereo negli Usa o la raccolta dei rifiuti in Gran Bretagna che minaccia di innescare una seconda emergenza sanitaria.
Sullo sfondo, poi, un rallentamento già in atto a causa del caro-energia e una crisi sulla supply chain che stenta a offrire segnali di picco, come mostra questo grafico,
dal quale si nota come il nuovo barometro composito dello stress sulla catena di fornitura sia ancora ai massimi e gli stessi analisti pongano il condizionale sulle probabilità di una sua moderazione in fieri. In compenso, il potere d’acquisto già paga lo scotto. Perché al netto del salasso ai distributori di benzina, gli interventi in punta di deficit per calmierare le bollette o il costo delle mascherine FFP2 sono poca cosa di fronte all’impatto psicologico di Ikea che preannuncia un 9% di aumento dei prezzi a livello generale ma destinato a essere superiore in Europa. Ikea, il simbolo dell’acquisto sostenibile a livello di portafoglio.
Insomma, qualcosa non va. Non a caso, dopo mesi e mesi di deglutizioni forzate e alternate fra alleati, Lega e Cinque Stelle hanno palesato i loro dubbi e le loro contrarietà. E il fatto che per il partito di Salvini sia stato un draghiano di ferro come il ministro Giorgetti a chiedere maggiore cautela, la dice lunga. In punta di contraddizioni, sempre più stridenti lungo tutto lo spettro della campagna politico-sanitaria di contrasto al virus, cosa sta accadendo? Una risposta potrebbe fornircela questo altro grafico,
il quale mostra il risultato dell’ultimo sondaggio condotto da YouGov nel Regno Unito e relativo alla percezione di durata della crisi da Covid fra i sudditi di Sua Maestà. Popolo decisamente pragmatico e poco emotivo, quantomeno rispetto agli italiani. Ebbene, il 33% ritiene che l’emergenza Covid non finirà mai. Permanente. Mentre un altro 21% fissa l’arco temporale necessario in altri due anni e un 20% tra 1 e 2 anni.
Insomma, ecco spiegata la scelta di Boris Johnson di non imporre ulteriori restrizioni e sposare la politica del convivere con il virus. I suoi connazionali già ne sono persuasi, il new normal di regole e limitazioni è stato implicitamente accettato. O, quantomeno, tollerato quando non sfoci in eccessi repressivi e di controllo. Perché allora Mario Draghi sembra intenzionato ad andare fino in fondo, a rasentare l’introduzione surrettizia di una sorta di panopticon socio-sanitario? Davvero imporre il super green pass per lavorare - in una Repubblica fondata sul lavoro, come recita l’articolo 1 della Costituzione - appare la via maestra e più efficace per difendere il Pil? Molto cinese come logica, volendo essere sinceri.
Perché al netto delle limitazioni per ristoranti, bar, piscine, stadi, cinema, teatri, mezzi di trasporto di ogni ordine e grado e chi più ne ha, più ne metta, intervenire sul mondo del lavoro implica altro. Implica la formalizzazione di un iter extra-emergenziale, un qualcosa che viene surrettiziamente introdotto nel cuore pulsante delle strutture economiche del Paese con l’alibi di Omicron. Il tutto con l’ok bipartisan di sindacati e datori di lavoro, seppur con sfumature differenti di accettazione. Insomma, il Consiglio dei ministri sta per gettare in faccia agli italiani la medesima realtà che il sondaggio di YouGov dimostra abbia fatto presa nella coscienza collettiva britannica: quanto viene deciso non ha più come orizzonte temporale l’emergenza, bensì il nuovo regime di convivenza sul lungo termine con l’endemia.
Altrimenti perché rendere impossibile l’ottenimento del super green pass per i non vaccinati, stante la fine dello stato di emergenza al 31 marzo e la necessità di tre dosi complete per ottenerlo? E perché invece fissare al 1 febbraio la data di partenza del nuovo regime di durata ridotta dello stesso green pass, da nove a sei mesi? Perché si ragiona come se la realtà di Omicron debba durare ad libitum. Esattamente come hanno percepito, masticato e digerito in gran parte i cittadini britannici. A questo punto, però, non sarebbe più onesto ammettere che si sta utilizzando la quarta ondata e Omicron come alibi per dar vita ai prodromi di una riforma Hartz del mercato del lavoro, seppur travisata?
Certamente sì. Ma a quel punto, i partiti comincerebbero a temere la reazione dei propri elettori. E magari, un tesserato Cgil si chiederebbe per quale ragione non più tardi di due settimane fa abbia rinunciato a una giornata di stipendio, scioperando contro la Manovra, quando oggi le parole del suo segretario e quelle del confindustriale Bombassei appaiono sovrapponibili. Quanto si sta decidendo, quanto si sta introducendo, ormai ha ben poco a che fare con il contrasto al virus. E molto con i diktat europei contratti in sede di Recovery Plan. Il green pass sul lavoro, di fatto, rappresenta uno stress test di accettazione e percezione sociale ma anche un presupposto di lavoro si cui modellare le relazioni fra parti sociali e potere legislativo negli anni a venire.
C’è aria di blitz sulla previdenza, tanto per parlarci chiaro. C’è aria di insostenibilità dei conti pubblici, ormai quasi impossibile da occultare ulteriormente sotto il tappeto di quel Pil al 6% da difendere a colpi di limitazioni e restrizioni. Il prossimo Consiglio dei ministri va segnato sul calendario, cerchiandolo di rosso. Perché creerà i presupposti di agenda politica per i prossimi cinque anni almeno, se non dieci. Chiunque vada al governo.
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