Dalla polemica sulle piume d’oca di Moncler alla delocalizzazione. Quasi tutti i principali brand del lusso producono all’estero, da Prada a Dolce&Gabbana, da Armani a Tod’s.
Mentre continua la polemica su Moncler e sulle «piume d’oca» in molti hanno sottovalutato un secondo filone, altrettanto importante, seguito dall’inchiesta condotta da Sabrina Giannini per Report.
Ci riferiamo alla cosidetta delocalizzazione, tendenza quanto mai «di moda» in Italia, in base alla quale i brand del lusso (e non solo) spostano la produzione dei loro capi all’estero continuando però a giocare sulla fama che il «Made in Italy» ha acquisito nel mondo.
Sebbene passata in secondo piano rispetto al fondamentale tema relativo agli abusi sugli animali compiuti negli allevamenti ungheresi, la trasmissione di Milena Gabanelli ci racconta anche un’altra storia. Ci riferiamo in particolare all’amore scoppiato alcuni anni fa tra Prada e la Transnistria, che assurge a simbolo di un trend molto più ampio. Ma prima occorre fare alcune precisazioni.
I brand del lusso e la delocalizzazione
Romania, Ungheria, Armenia, Bulgaria sono questi i Paesi che oggi producono i capi che i maggiori brand del lusso rivendono poi su mercati internazionali a prezzi superiori ai mille euro.
Parlando di piumini, la scelta di delocalizzare a Est non è stata fatta solo da Moncler, ma anche da marchi di primo piano come Peuterey e Aspesi. Come si sottolinea nel servizio, a loro la produzione costa in media tra i 18 e i 30 euro, mentre noi li ricompriamo a prezzi molto più alti, da un minimo di 500 euro a un massimo di 2.000.
A pagare le conseguenze di queste decisioni sono soprattutto le piccole imprese italiane (in particolare quelle del sud), che in passato «creavano» e assemblavano i prodotti dei brand del lusso e che oggi sono costretti a indebitarsi e a licenziare mano d’opera per sopravvivere.
«Ma quanto costerebbe produrre in Italia?» chiede ad un certo punto del servizio Sabrina Giannini a un imprenditore. Impossibile rimanere indifferenti alla risposta: «30 euro in più a pezzo». A questo punto la considerazione sembra essere una sola: questi marchi preferiscono spendere 30 euro anziché 60, su capi che poi rivendono a più di mille euro, arricchendosi sempre di più a scapito dei lavoratori italiani. Considerazione che viene puntualmente confermata da un solerte imprenditore che dichiara candidamente «io me ne frego degli operai italiani».
La Transnistria
Come sottolineato dalla conduttrice di Report, fino a domenica scorsa probabilmente il 99,9% degli italiani ignorava l’esistenza di questa «Nazione». Le virgolette sono d’obbligo poiché dal 1990 la Transnistria è uno Stato indipendente de facto non riconosciuto dall’ONU. Viene infatti ancora considerato de iure come appartenente alla Moldavia, anche se oggi è governato da un’amministrazione autonoma (fondata sul Soviet) con sede nella città di Tiraspol.
Sottolineiamo infine che il 18 marzo 1914 la Transnistria ha chiesto l’annessione alla Russia.
Prada e la Transnistria
Una delle aziende che ha deciso di delocalizzare all’estero, e in particolare in Transnistria, è Prada.
La celeberrima holding italiana ha scelto di affidare la produzione dei propri capi all’Intercentre Lux di Tiraspol. Il prodotto più costoso costa 33,80 euro (la media si situa però tra i 18 e i 30 euro), anche se l’azienda nostrana preferirebbe pagarne meno (20 euro). I lavoratori della fabbrica guadagnano in media 5 euro l’ora, 1/4 rispetto a quelli italiani. I capi finiscono poi sul mercato internazionale a un prezzo vicino ai 2.000 euro e con l’etichetta «Made in Moldova».
E gli altri?
Inutile cercare di trovare un capro espiatorio. Non sono solo Moncler e Prada a produrre all’estero, ma i loro brand sono solo un’esempio di un tendenza che coinvolge praticamente tutti, o quasi.
Come evidenziato da Milena Gabanelli infatti, tra i cinque principali marchi del lusso italiano (Prada, Armani, Tod’s, Dolce&Gabbana e Cucinelli) solo uno continua a produrre in Italia.
Cucinelli e il Made in Italy
Brunello Cucinelli ha fatto una scelta ben precisa: rimanere in Italia, puntare sulla qualità (e non solo sulla fama) del «Made in Italy» e continuare a produrre nel nostro Paese, più precisamente in Umbria. La decisione non lo ha certo mandato in bancarotta: la Brunello Cucinelli S.p.A., specializzata in abbigliamento pregiato in cashmire, è una società quotata in Borsa, vanta un utile netto del 9% annuo, un fatturato (nel 2013) di 322 milioni di euro con un debito di 80 milioni su cui paga 1,9 milioni di interessi a un tasso del 2,2% (rischio zero insomma, come sottolinea la Gabanelli).
Numeri alla mano dunque, produrre in Italia si può. Se poi non si vuole, è un altro paio di maniche.
© RIPRODUZIONE RISERVATA