Perché l’Ucraina ha legalizzato Bitcoin in fretta e furia? E altre stranezze belliche...

Mauro Bottarelli

20 Febbraio 2022 - 10:07

Silenzio sui 6 miliardi di commessa per carrarmati Usa alla Polonia. O sull’editoriale pro-Guerra fredda 2.0 del WSJ. E se ora la Nato ammette di essere «alle porte della Russia», qualcosa non torna

Perché l’Ucraina ha legalizzato Bitcoin in fretta e furia? E altre stranezze belliche...

Se voi foste un parlamentare di un Paese che sta per essere invaso dall’esercito russo, quale sarebbero le vostre priorità? Anzi, la priorità con la p maiuscola? Ovviamente, legalizzare Bitcoin. Già, il 18 febbraio, quando la diplomazia ancora una volta sembrava costretta a cedere alle pressioni della guerra, l’assemblea legislativa di Kiev dava il via libera alla versione emendata della nuova legislazione sugli assets virtuali, definita dal ministro per la Trasformazione digitale, Mykhaylo Fedorov, un’ulteriore possibilità di sviluppo nel business per la nostra nazione. Le aziende del settore cripto, sia ucraine che straniere, potranno da oggi operare legalmente e i nostri cittadini beneficeranno di un accesso sicuro al mercato globale di assets virtuali.

Insomma, un sangue freddo e una lucidità invidiabili. Stando alla narrativa ufficiale, infatti, la versione 2.0 dell’Armata Rossa sarebbe pronta a ridurre Kiev in cenere sull’esempio dei Grozny ma i deputati paiono preoccupati unicamente di regolamentare Bitcoin e soci. O sono Rambo o sono pazzi. O c’è sotto dell’altro. Quantomeno, a livello di timing. Perché quella medesima legge fu bloccata nel suo iter parlamentare non più tardi dello scorso ottobre dal presidente Zelensky in persona, a detta del quale il momento economico del Paese non permette lo sforzo di creazione e gestione di un ente ad hoc. Detto fatto, la legge tornò in Parlamento con la raccomandazione di delegare tutte le procedure di controllo e supervisione a istituzioni già presenti. I parlamentari presero atto, incorporarono i consigli del presidente e fecero ripartire l’iter.

Concluso a tempo di record proprio nei giorni di maggiore tensione. E maggiore copertura mediatica. Tanto che Serhiy Tron, fondatore di White Rock Management, confermata a Bitcoin Magazine come quanto accaduto a Kiev rappresenta un segnale enorme alla comunità internazionale delle criptovalute, quantomeno alla luce della posizioni ufficiale della Banca centrale ucraina, a detta della quale Bitcoin e soci erano solo surrogati monetari senza alcun valore reale. Forse si intendeva telegrafare al mondo l’intenzione di tramutarsi davvero nella Bitcoin Nation, nel paradiso del mining? Così, tanto per stimolare i più riottosi a prendere coscienza del fatto che morire per Kiev poteva avere anche dei risvolti positivi e profittevoli?

Certo, è un cattivo pensiero. Ma lo è anche il fatto che il 7 febbraio Walter Russell Mead pubblicasse sul Wall Street Journal un articolo dal titolo che non si prestava a interpretazioni: Time to increase defence spending. Insomma, è l’ora del warfare. E questo grafico

Controvalori della spesa totale per difesa degli Stati Uniti Controvalori della spesa totale per difesa degli Stati Uniti Fonte: US Office of Management and Budget

ci mostra come, in base a calcoli del Office of Management and Business della Casa Bianca, il 2022 vedrà la spesa militare statunitense toccare un massimo assoluto dalla fine della Seconda Guerra mondiale, qualcosa come 1,1 trilioni di dollari. Ma per Mead non è sufficiente. A suo modo di vedere, il warfare dovrebbe pesare attorno al 7% del Pil, la media storica nel periodo della Guerra fredda contro l’Urss. Quindi, almeno altri 300 miliardi di spesa extra per pompare un po’ l’asfittico 4% attuale e tornare ai livelli da glory days del Vietnam.

Oddio, vuoi vedere che la regionalizzazione del conflitto nel Donbass può fare comodo, poiché garantisce un relativamente alto livello di controllabilità degli eventi ma anche un allarme di lungo termine che giustifichi spese strategiche su un periodo indefinito? Certo è strano che il Wall Street Journal a inizio febbraio pubblichi un così esplicito appello al governo affinché trovi in fretta un pretesto in stile Muro di Berlino che permetta al complesso bellico-industriale di macinare crescita (e profitti). Ancor più strano se il tutto viene messo in relazione a quanto accaduto non più tardi di ieri, 19 febbraio. Mentre nel Donbass la guerra cominciava a materializzarsi e a Monaco si consumava il ritorno in società della giubilata Kamala Harris, a Washington il segretario alla Difesa, Lloyd Austin, annunciava una commessa da 6 miliardi di dollari per 250 carrarmati Abrams alla Polonia.

La ragione di quella vendita? Alcune delle forze russe attualmente dispiegato sono a sole 200 miglia dai confini polacchi. Insomma, ecco il nuovo business, la nuova Guerra fredda: tutti i membri Nato che siano ascrivibili geograficamente nel raggio di azione dell’esercito russo, ovvero i protagonisti di quell’allargamento a Est che Mosca contesta e intende fermare in Ucraina, verranno d’ora in poi armati con gioia dall’America, poiché vittime dirette e indirette della minaccia del Cremlino. Insomma, i sospetti aumentano.

Soprattutto quando al summit sulla sicurezza di Monaca, Kamala Harris sottolinea come se la Russia attaccherà, aumenteremo la presenza nei Paesi dell’Est Europa e il segretario generale della Nato rivendica come se Mosca dovesse lanciare l’offensiva, ci troverà alle sue porte. Di fatto, un’ammissione di colpa travestita da diritti di intervento difensivo. Proprio sicuri che l’irremovibile durezza diplomatica russa sul tema dell’allargamento non abbia qualche fondamento di realtà e buon senso? A voler seguire la logica di Pollicino, le briciole che portano a interessi più o meno inconfessabili e agende parallele cominciano davvero a essere troppe. E pubblicate in bella evidenza sul Wall Street Journal sotto forma di editoriale.

Argomenti

# Russia
# Nato

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