Lo yen prosegue nella svalutazione contro euro e dollaro, in un chiaro percorso accomodante segnato dalla banca centrale. Il tonfo della valuta, però, può innescare l’instabilità finanziaria in Asia.
Lo yen prosegue il tonfo e rischia di precipitare ai minimi degli ultimi 24 anni in uno scenario che, secondo alcuni esperti, minaccia di trasformare un’opportunità per il Giappone in un problema economico e finanziario per l’Asia.
L’euro, per esempio, resta al suo punto più alto degli ultimi 7 anni circa contro lo yen giapponese e alle ore 11.30 di giovedì 9 giugno vale 143,22 yen, appena al di sotto del massimo di gennaio 2015 di 144,25 yen raggiunto mercoledì. La valuta giapponese si è indebolita di oltre il 4% rispetto all’euro questo mese.
Contro il dollaro Usa, lo yen ha esteso la sua scivolata, scendendo a un nuovo minimo di 133,68 mentre si scrive.
La banca centrale giapponese sta proseguendo sulla sua strada accomodante, agendo sulla valuta: ma cosa può significare il tonfo dello yen per l’Asia?
Lo yen ai minimi può destabilizzare l’Asia
La banca centrale giapponese e la valuta nazionale sono nel mirino degli investitori in Asia.
Il pericolo, stando ad alcune analisi, è che lo yen continui a scivolare verso 150 dollari, livelli visti l’ultima volta nel 1990. Questa soglia stimolerebbe l’intervento del Giappone stesso o porterebbe la Cina e altre nazioni asiatiche a svalutare le loro monete per evitare di perdere competitività nelle esportazioni.
L’attuale calo dello yen potrebbe, quindi, innescare turbolenze sulla scala della crisi finanziaria asiatica del 1997 se scendesse fino a 150 per dollaro, secondo l’economista Jim O’Neill.
Un crollo di tale portata potrebbe convincere la Cina a intervenire nel mercato valutario per proteggere la propria economia in declino e sarebbe perfettamente razionale che lo facesse, ha detto in un’intervista su Bloomberg l’esperto.
“Se lo yen continua a indebolirsi, la Cina vedrà questo come un vantaggio competitivo sleale, quindi i parallelismi con la crisi finanziaria asiatica sono perfettamente ovvi”, ha affermato O’Neill, che era capo economista valutario presso Goldman Sachs al momento della crisi, ed è ora consigliere senior di Chatham House.
“Se vediamo la Bank of Japan attenersi al controllo della curva dei rendimenti e vediamo che i rendimenti obbligazionari continuano a crescere negli Stati Uniti, questo tipo di slancio e le ricadute potrebbero creare problemi reali a Pechino”, ha affermato O’Neill.
Il focus è innanzitutto sull’atteggiamento della banca centrale, in controtendenza rispetto all’inasprimento delle politiche monetarie nel mondo.
“La Banca del Giappone è ora l’unica banca centrale tra i paesi sviluppati che non sta inasprendo la politica monetaria e questo ha rafforzato i cross dello yen, lasciandolo come l’unico perdente”, ha affermato Takuya Kanda, direttore generale del Gaitame.com Research Institute di Tokio.
C’è da dire, infatti, che una BOJ accomodante sta mantenendo ancorati i rendimenti locali nel tentativo di rilanciare un’economia debole, mentre i titoli equivalenti statunitensi salgono in base alle aspettative sui tassi di interesse in aumento. La valuta ha anche risentito della posizione del Giappone come importatore di energia, in un momento di aumento dei prezzi del petrolio.
In un discorso di lunedì 6 giugno, il governatore della Banca del Giappone Haruhiko Kuroda ha affermato che l’inasprimento delle politiche non era ancora sul tavolo, indicando che l’economia ha bisogno di più tempo per riprendersi, poiché il Paese non ha una crescita salariale sufficiente.
“In questa situazione, la stretta monetaria non è affatto una misura adeguata”, ha affermato, suggerendo che la banca si concentri invece sul rafforzamento dell’attività economica.
Intanto, c’è chi vede in questa linea e nella svalutazione dello yen un ulteriore segnale di instabilità finanziaria in Asia.
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