Il patto di concorrenza è nullo quando non rispetta i requisiti di legge o è eccessivamente gravoso per il lavoratore. Ecco quando e cosa si rischia.
Il patto di non concorrenza è un accordo tra il datore di lavoro e il dipendente con cui quest’ultimo si impegna a non svolgere attività concorrenziali anche nella fase post-contrattuale, vale a dire dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
La legge, infatti, vieta al dipendente di svolgere attività in concorrenza al datore di lavoro, ma questo divieto dipende dal contratto di lavoro ed è finalizzato alla tutela dell’azienda da possibili danni. Di conseguenza, alla scadenza del contratto il dipendente può lavorare presso un’azienda concorrente dell’ex datore di lavoro o avviare un’analoga attività in proprio.
Nonostante ciò sia legale, è fattibile che l’ex datore di lavoro possa subire così dei danni a causa delle competenze e delle informazioni acquisite dal lavoratore mentre svolgeva l’attività in qualità di dipendente. Con il patto di non concorrenza si può aggirare questo ostacolo in modo del tutto legittimo, purché si rispettino i requisiti previsti dalla legge. In caso contrario, il patto di non concorrenza è nullo e l’ex datore di lavoro non ha alcuna tutela.
Quando il patto di non concorrenza è nullo
Il patto di non concorrenza deve rispettare i precisi requisiti previsti dalla legge, affinché il datore di lavoro possa tutelarsi ma senza che ciò comporti per il lavoratore un onere eccessivo. Il mancato rispetto dei requisiti essenziali comporta la nullità del patto e l’impossibilità per le parti di rivalersi una contro l’altra in caso di mancato rispetto delle condizioni.
In particolare, ecco quando il patto di non concorrenza è nullo.
1. Non è stato stipulato in forma scritta
Il patto di concorrenza deve essere scritto, come richiesto dalla legge. Non è necessario formalizzare l’accordo in presenza del notaio, ma è sufficiente anche una scrittura privata, purché ci sia. Molto spesso il patto di non concorrenza viene esplicitato direttamente nella lettera di assunzione, ma è anche possibile farlo su un documento separato. In mancanza di scrittura, ad esempio con un accordo verbale, il patto è nullo.
2. Il divieto dura di più di quanto concesso dalla legge
Il patto di non concorrenza non può avere una durata arbitraria, perché prolungare il divieto per un tempo eccessivo comprometterebbe la carriera del lavoratore. È necessario bilanciare questo aspetto con l’esigenza di tutela del datore di lavoro e dell’azienda, dunque la legge impone limiti diversi a seconda della qualifica del dipendente.
In particolare, il patto di non concorrenza può avere una durata massima di 3 anni per dipendenti assunti come quadri, impiegati e operai, ma sale fino a 5 anni per i dirigenti. Il patto di non concorrenza che impone un divieto superiore è nullo per l’eccedenza, ma rimane valido per il periodo massimo previsto dalla legge.
3. Il lavoratore non riceve un corrispettivo
Il dipendente non deve essere costretto ad accettare il patto di non concorrenza in virtù del rapporto di lavoro, ma ha diritto a ricevere un corrispettivo, anche perché in virtù del patto la sua capacità di trovare un’occupazione è più bassa e dunque deve tutelarsi.
Di conseguenza, il patto di non concorrenza è nullo quando non prevede un corrispettivo per il datore di lavoro, ma anche quando il corrispettivo previsto non è proporzionato al sacrificio richiesto. Bisogna infatti considerare l’entità dei limiti imposti al lavoratore e la durata, pattuendo un corrispettivo congruo.
Spesso i giudici nell’attuare questa analisi tengono conto della retribuzione lorda annua percepita dal dipendente al termine del rapporto di lavoro, proprio in riferimento ai limiti occupazionali. Attenzione, però, che questo criterio non può essere adottato come fondamento, poiché è indipendente dal contratto di lavoro, ma soltanto come ulteriore parametro di valutazione. Il corrispettivo deve infatti essere quantomeno determinabile a prescindere dal contratto di lavoro.
4. Limiti alla non concorrenza
Il patto di non concorrenza deve contenere i precisi limiti di oggetto e luogo che deve rispettare il lavoratore, perciò se mancano indicazioni sulle attività vietate e l’estensione geografica del divieto il patto e nullo.
Non solo, la Corte di Cassazione ha spesso ricordato che il patto di non concorrenza è da ritenersi nullo anche nel caso in cui le indicazioni di luogo e oggetto siano eccessivamente ampie, troppo gravose per il dipendente senza che siano giustificabili dalle esigenze del datore di lavoro.
Per esempio, il divieto di non concorrenza esteso genericamente a tutto il territorio nazionale o finanche europeo è da ritenersi nullo. Anche le attività vietate devono essere delimitate e attenersi, per l’appunto, ai rischi concorrenziali. La determinazione delle attività e dell’estensione geografica è poi fondamentale per la valutazione del corrispettivo.
Cosa si rischia se il patto è nullo
Quando il patto di non concorrenza è nullo il lavoratore non è tenuto a rispettarne i limiti, dopo la risoluzione del rapporto di lavoro può svolgere le attività che preferisce senza che il datore di lavoro possa rivalersi contro di lui per l’inadempimento contrattuale, ottenere un risarcimento del danno e la restituzione del corrispettivo, nonché la cessazione della condotta.
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