Quello ambientale è un aspetto poco raccontato dei conflitti che, però, vede nella guerra in Ucraina un esempio chiave per provare a cambiare rotta.
La narrazione del conflitto russo-ucraino ha assunto molteplici forme in questi mesi, ma raramente se ne è parlato come di una catastrofe ambientale. Certo, la dimensione umanitaria, i risvolti economici e le prerogative politiche non devono e non possono essere messe in secondo piano costituendo i pilastri del funzionamento e dell’organizzazione delle società moderne, ma è altrettanto importante comprendere le prospettive ambientali di questa guerra.
La stessa Ucraina, in un articolo del Green European Journal edito in collaborazione con Voxeurop, è infatti oggetto di studio in virtù del suo tragico passato e dei residui che, ad esempio, il disastro di Chernobyl ha lasciato dietro di sé e che oggi vanno a sommarsi ai all’offensiva in Donbass e ai bombardamenti nel resto del Paese. Come certifica la testata infatti:
L’impatto ecologico del conflitto serve a ricordarci che, anche quando la guerra finirà, le conseguenze delle violenze commesse continueranno a pesare sulle generazioni future.
La decarbonizzazione ad esempio è al centro delle riflessioni lussemburghesi in risposta ai dati che si registrano sul suolo di Kiev e nello storico delle analisi climatiche post-belliche. Nel tentativo di disegnare il futuro delle guerre, si avanzano infatti proposte alquanto singolari.
Per una visione d’insieme, iniziamo quindi a porci alcuni cruciali interrogativi.
I costi ambientali della guerra in Ucraina: quali i rischi
Il costo ambientale di eserciti e attività militari è notevole. Secondo Stuart Parkinson, direttore esecutivo di Scientists for Global Responsibility, l’impatto ecologico sarebbe pari al 5% delle emissioni di tutto il mondo (più del traffico aereo e navale mondiale messi insieme).
La guerra in Ucraina in particolare desta poi notevoli preoccupazioni poiché si tratta di un conflitto condotto in uno dei territori più industrializzati e inquinati al mondo. Le ricostruzioni del Green European Journal raccontano la drammatica situazione in cui il Paese si trova a causa dell’eredità sovietica.
L’esempio principe è quello dalla zona del Donbass interessata da scontri già a partire dal 2014. Questa regione molto industrializzata dell’Ucraina orientale è infatti un territorio chiave proprio per le sue risorse ma, se in un conflitto vengono danneggiate le strutture delle cosiddette industrie pesanti, a risentirne sono l’ambiente e la salute degli abitanti oltre ai soldati al fronte.
Ricordiamo infatti il caso dell’acciaieria Azovstal e il contenzioso apertosi per il controllo delle centrali nucleari e delle centrali elettriche: tutti contesti in cui monitorare i parametri sul campo diventa impossibile e, senza le capacità di comprendere, viene meno anche la possibilità di limitare il danno.
Per un esempio concreto possiamo dire che, da quando è cominciato il conflitto, le aree delle miniere di carbone abbandonate in Donbass si stanno riempiendo di sostanze tossiche. Senza l’attività umana infatti l’acqua usata nel processo «riempie i condotti minerari e sale, eventualmente raggiungendo e inquinando il terreno e le sorgenti potabili».
Nelle denunce di numerose organizzazioni ucraine e internazionali tra cui Zoï environmental network, Truth hounds e Osce, si legge inoltre che circa 4.500 imprese minerarie metallurgiche e chimiche presentano installazioni precarie. 200 sono poi siti di stoccaggio per rifiuti industriali abbandonati dai loro proprietari o andate in rovina che tuttavia, essendo vicini alla linea del fronte, rischiano di essere colpiti e di rilasciare le sostanze tossiche presenti al loro interno.
Questi però non sono semplici avvertimenti su future e probabili emergenze ambientali, si sono già verificate cedimenti nelle dighe delle installazioni di stoccaggio dei residui, nuvole di ammoniaca tossica a causa di bombardamenti indiscriminati e un picco nelle radiazioni gamma presso la centrale di energia nucleare di Chernobyl, già sede del disastro nucleare del 1986.
Come riporta lo studio quindi la mancata manutenzione combinata agli attacchi militari costituisce un binomio esplosivo, una roulette russa in cui, se non si interrompe il gioco, prima o poi il proiettile andrà a segno.
Il futuro delle guerre è carbon neutral?
L’impatto di un evento storico non si misura soltanto sui risvolti immediati, è il quadro di lungo periodo a fare la differenza. Per questo, osservando attentamente quel che la guerra su Kiev sta portando con sé, Paesi come il Lussemburgo decidono di intervenire anticipando i tempi. Capendo come il fulcro dell’inquinamento bellico sia infatti consumo di energia e suolo è possibile dirigere la propria attenzione su un tema specifico: la decarbonizzazione.
Ecco, decarbonizzare gli eserciti resta per ora una sfida molto difficile ma secondo il ministro della Difesa lussemburghese François Bausch serve puntare prima tecnologia e sull’adeguamento delle norme. Come riportato da Wired, la proposta sul tavolo è quella di impiegare energie rinnovabili e carburanti di sintesi.
Nei suoi interventi pubblici Bausch ha spiegato in breve gli intenti dell’amministrazione:
«Il governo del Lussemburgo si è impegnato a investire il 2% del budget annuale riservato al settore della difesa in attività di ricerca e sviluppo dedite alla decarbonizzazione».
Lo scorso 14 giugno ha per l’appunto firmato una lettera di intenti per manifestare l’interesse del proprio governo verso Skydweller, un velivolo privo di pilota umano totalmente alimentato a energia solare e utilizzabile in ambito civile e militare, specie per operazioni di ricognizione, spionaggio e sorveglianza territoriale.
Tuttavia è altrettanto importante sottolineare come sia di fatto improbabile che si arrivi a una decarbonizzazione del settore militare entro il 2050. Questi discorsi apparentemente futuristici, e in vero non troppo fondati, sono però il frutto della roadmap sulla decarbonizzazione elaborata dalla European Climate Foundation.
Nonostante i tempi per il raggiungimento del target andrebbero quindi rivisti, l’argomento resta rilevante. Le premesse per imboccare questo sentiero di fatto ci sono: proprio l’Unione europea, alla luce del sole, sta promuovendo da un lato politiche ambientaliste volte a ridurre le emissioni dei Paesi membri, dall’altro incoraggia il progetto di difesa comune e aprendo la strada a un riarmo. Il modo migliore per salvaguardare la coerenza strategica? Fondere le due vie e progettare un sistema di mezzi a basso impatto.
L’effettiva validità, eticità e coerenza di quest’eventuale mossa sarà poi valutata nel momento della messa in campo di quelle che, fino a oggi, possiamo considerare solo delle semplici visioni.
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