2016, accordi commerciali e libero scambio: TTIP, TTP, AEC e Ita. Quali reali opportunità per le imprese?

Chiara Puccioni

11 Gennaio 2016 - 13:35

Nel 2016 si potrebbero aprire importanti opportunità per il commercio mondiale: quali sono i maggiori accordi coinvolti? Le imprese riescono realmente a sfruttare quelli in vigore?

2016, accordi commerciali e libero scambio: TTIP, TTP, AEC e Ita.  Quali reali opportunità per le imprese?

Nel 2016 ci saranno importanti sviluppi per il commercio mondiale e gli accordi commerciali bilaterali o regionali. Prima di tutto per il TTIP, trattato transatlantico fra UE e USA, che se concluso rappresenterebbe la più vasta area di libero scambio esistente, poiché le due aree insieme rappresentano circa metà del PIL mondiale e un terzo del commercio globale. Obiettivo dell’accordo è la liberalizzazione e l’integrazione dei due mercati, riducendo i dazi doganali e rimuovendo in diversi settori le barriere non tariffarie (differenze nelle normative, standard da applicare ai prodotti, regole sanitarie etc. - l’ambito che più preoccupa i consumatori europei) e quindi facilitando lo scambio delle merci, il flusso degli investimenti e l’accesso ai rispettivi mercati dei servizi e appalti pubblici. I negoziati per l’accordo potrebbero giungere ad una bozza già entro la fine dell’anno. C’è poi il TTP, il Trans-Pacific Partnership, accordo tra gli USA e altri 11 paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, dal Giappone al Cile, Cina esclusa, coinvolgendo circa il 40% del PIL globale. L’accordo, raggiunto il 5 Ottobre 2015, ma ancora in attesa dell’approvazione dei singoli firmatari, prevede, tra le altre misure, provvedimenti per ridurre le barriere tariffarie e un meccanismo di risoluzione delle dispute tra investitori e stati. In Asia, è da poco diventata realtà la comunità economica (AEC) dell’ ASEAN, l’associazione delle nazioni del sud est asiatico, portando anche qui ad una maggiore circolazione di beni, servizi, investimenti e forza lavoro. Infine, all’interno del WTO, grazie all’Information technology agreement (Ita), comincieranno a essere progressivamente eliminate le tariffe su molti beni del comparto IT.

Tutti questi accordi hanno naturalmente in comune l’obiettivo di una maggiore liberalizzazione degli scambi commerciali, lo stimolo al commercio di beni e servizi e spesso la facilitazione degli investimenti internazionali. Tuttavia essi sono tutti frutto di negoziazioni bilaterali o regionali, in quanto l’ultimo accordo di liberalizzazione del commercio multilaterale è stato siglato nel 1994 durante l’Uruguay Round, con il quale è stato anche sancito il passaggio dal Gatt al Wto, l’organizzazione mondiale del commercio che supervisiona gli accordi di natura commerciale tra gli stati membri. Da allora sono stati privilegiati gli accordi bilaterali (tra due stati o due gruppi di stati) o regionali ( FTA – free trade agreement), i quali però portano inevitabilmente ad una sovrapposizione di regole e norme, poiché uno stesso paese, o gruppo di paesi, è soggetto a più accordi. Quanto, quindi, questo tipo di negoziazioni stimola effettivamente il commercio internazionale?

Nel mondo sono in vigore 265 accordi di libero scambio regionale (dato del Wto riferito a dicembre 2015), i quali però non sembrano apportare sempre i benifici sperati. Di fatti, da un’analisi condotta dalla Thomson Reuters, colosso nell’ambito dell’informazione economica-finanziaria e dalla Kpmg, importante società di consulenza, risulterebbe che, su 446 imprese intervistate, che commerciano con l’estero in 11 diversi paesi, il 70% dichiara di non riuscire a sfruttarne a pieno le potenzialità degli accordi commerciali in vigore. Per la maggior parte dei casi (79%) perché risulta troppo complessa la gestione incrociata della rules of origin – ovvero l’insieme delle regole con cui si stabilisce l’origine dei beni prodotti- e il reperimento di tutti i documenti necessari. Di fatti, secondo le aziende, le sfide principali da affrontare nel commercio estero, sono l’interpretazione delle regole tra le diverse frontiere e le mutevoli esigenze delle agenzie governative locali. Due terzi delle aziende intervistate si aspettano inoltre che le regole del commercio mondiali diventino ancora più complicate nei prossimi 3 / 5 anni. Naturalmente una tale complessità ha un costo per le aziende, che incorrono in un maggiore rischio di sanzioni nel caso di un errata interpretazione delle regole, o di maggiori costi operativi. Secondo Taneli Ruda, direttore del OneSource Global Trade Management di Thomson Reuters, il nocciolo del problema è l’utilizzo di processi «manuali» per soddisfare i complessi requisiti di conformità imposti dagli accordi commerciali incrociati, che porta ad una maggiore esposizione al rischio ed a un’inefficiente utilizzo delle risorse. Con la giusta tecnologia, invece, il lavoro ridondante potrebbe essere eliminato e potrebbero essere meglio analizzati i diversi schemi tariffari imposti tra paesi.

Se da un lato quindi gli accordi bilaterali e regionali dovrebbero portare benefici in termini di volume di scambi commerciali (secondo il Wto, in media il commercio mondiale negli ultimi 20 anni è cresciuto del 5% all’anno), dall’altro sembra che le imprese abbiano ancora molta strada da fare. Ed è facilmente immaginabile che, in particolare le imprese italiane, già arretrate in termini di capacità di export e internazionalizzazione, se non investono in capitale umano e tecnologia, difficilmente potranno sfruttare a pieno non solo gli accordi già in atto, ma anche le opportunità che si potrebbero aprire in futuro.

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# Asia
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