Mosca utilizza il nodo delle sanzioni per far saltare l’accordo sul nucleare iraniano. E se Teheran può allargare il fronte, Abu Dhabi diviene hub per liquidare Bitcoin e Pechino sbocco del greggio
Mentre l’Europa sparava a salve nella splendida cornice di Versailles, Washington decideva di alzare il tiro nella disputa economica con la Russia. Dopo aver paventato la revoca dei privilegi commerciali per Mosca, il presidente Usa rendeva nota l’imposizione di dazi su vodka, caviale e diamanti. Negli Hamptons non devono averla presa bene.
Nel frattempo, però, Mosca dava vita a un giornata di silenziosa controffensiva diplomatica, destinata a lasciare il segno. Ad aprire le danze ci ha pensato il vice-rappresentante del Cremlino all’Onu, Dmitry Polyanskiy, il quale ha colto la palla al balzo della richiesta dell’Oms all’Ucraina di mettere in sicurezza gli agenti patogeni stoccati nei suoi laboratori per chiedere la convocazione di un Consiglio di sicurezza urgente sul tema delle attività di ricerca biologica con scopo militare degli Usa in territorio ucraino. Lettera morta all’atto pratico ma richiesta destinata a rimanere formalizzata.
Chi invece è andato ben al di là della mossa simbolica è stato il capo negoziatore russo al tavolo di Vienna per l’accordo sul nucleare iraniano, Mikhail Ulyanov, il quale nel colpevole disinteresse generale - dato dal clima di distensione degli ultimi giorni - ha fatto saltare il banco, presentando la richiesta di inserire nel documento finale la garanzia scritta che le sanzioni Usa contro la Russia non divenissero impedimento per commercio, investimenti, cooperazione economica e militare fra Mosca e Teheran. Detto fatto, il coordinatore dei negoziati, Enrique Mora, oggi non ha che potuto prendere atto dell’impasse generata dalla mossa russa e decidere per una pausa, Insomma, tutti a casa. Proprio a poche ore dalla firma che tutti davano per scontata.
E la questione, strumentale al fine di aprire un varco procedurale e burocratico nel muro sanzionatorio occidentale, rischia invece di diventare strategica. Perché se lo stallo dovesse prefigurarsi come più lungo del previsto, l’Iran potrebbe essere tentato dal proseguire la sua operazione di arricchimento dell’uranio, già oggi non particolarmente distante dal risultato necessario all’ottenimento di un’arma atomica. In quel caso, Stati Uniti e Israele sarebbero costretti a rimettere in cima all’agenda un capitolo di crisi che pensavano risolto. Il tutto nel pieno del conflitto in Ucraina e con il forte rischio che un inasprimento delle sanzioni verso Teheran venga letto come atto ulteriormente aggressivo dalla Cina, Paese con fortissimi legami commerciali e militari con gli Ayatollah.
Ma non basta. Nel pomeriggio, infatti, quando Bitcoin era appena risalito sopra quota 40.000 dollari nelle prime contrattazioni statunitensi,{{}} una notizia battuta dalla Reuters faceva precipitare le quotazioni di tutte le criptovalute: la Russia starebbe utilizzato gli Emirati Arabi Uniti come hub per la liquidazione di Bitcoin, di fatto un altro by-pass rispetto al regime di congelamento dei capitali legato a sanzioni ed estromissioni da SWIFT. E stando alle indiscrezioni giunte da Abu Dhani all’agenzia di stampa, si tratterebbe di un flusso alluvionale di miliardi che dalla Russia transiterebbe nel clearing ufficioso arabo per al fine di ottenere sostanzialmente due risultati: investire in real estate locale utilizzando direttamente criptovalute o utilizzare aziende prestanome in loco per convertire Bitcoin in hard currencies da veicolare poi altrove. Stando a Reuters, nessuna delle richieste giunte alle controparti degli Emirati è stata inferiore ai 2 miliardi di dollari.
Infine, la Cina. La quale fino ad oggi ha utilizzato una proverbiale e molto confuciana diplomazia nell’approcciarsi alla crisi ucraina, di fatto attaccando le sanzioni e la Nato ma anche mettendo sul chi va là le proprie banche rispetto agli acquisti di petrolio. Nella fattispecie, la concessione di lettere di credito necessarie agli acquirenti del Dragone per concludere trading sul greggio degli Urali. Detto fatto, il gigante petrolifero russo Surgutneftegaz (Surgut) ha permesso a controparti cinesi di ricevere carichi di greggio senza che queste dovessero presentare le necessarie garanzie. Ovvero, proprio quelle letters of credit che la Banca centrale cinese ha deciso venissero messe per un po’ in stand-by.
Un rischio per l’azienda russa, quasi un’operazione sulla fiducia ma anche l’unica strategia immediatamente utilizzabile per interrompere il digiuno commerciale che ha visto molti operatori energetici costretti a operare sconti record sull’Urals rispetto al Brent. E spesso rimanendo comunque senza acquirenti. Inoltre, le autorità di Pechino starebbero chiudendo gli occhi di fronte a un’altra pratica di circonvenzione delle sanzioni, basata sull’utilizzo di open accounts che consentono al cliente di acquistare beni sulla base di un accordo di pagamento differito e che contempla la necessità di saldo soltanto tre giorni dopo il carico del cargo. Infine, sempre dalla Cina hanno fatto notare a Reuters come il pagamento in dollari sia ancora possibile fino al giugno, stante un grace period legato ai tempi di implementazione delle sanzioni Usa su SWIFT. Il bazooka sanzionatoria rischia già di restare senza razzi da sparare?
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