Sull’articolo 6 della Delega fiscale si utilizza lo stesso metodo imposto per l’inflazione, negarne la gravità. Ma se si tratta di mera revisione statistica, perché dovrebbe far cadere il governo?
Se come diceva Agatha Christie, due indizi sono una coincidenza ma tre indizi fanno una prova, possiamo dire di essere quasi giunti alla soluzione del giallo. Perché se la strana rapidità con cui la Commissione Ue ha dato il via libera preliminare ai 21 miliardi del Recovery Fund solo 24 ore dopo il cambio di rotta dell’Italia su SWIFT e armi all’Ucraina è apparsa decisamente sospetta, il caso riguardante la delega fiscale e la minaccia di caduta del governo sulla riforma del catasto rischia di tramutarsi in un reagente di commissariamento de facto degno di CSI New York.
Perché quando Forza Italia, partito che sulla difesa della casa di proprietà ha costruito - almeno a parole - il suo architrave politico al pari della crociata sulla giustizia, nicchia nel presentare l’emendamento che aveva promesso e che garantirebbe lo stralcio dell’articolo 6 sulla riforma del catasto dalla delega fiscale, allora qualcosa davvero emana l’odore della paura. Lo stesso che il poliziotto cattivo dei telefilm dice al sospettato sotto interrogatorio di sentire in maniera chiara e nitida. E c’è poco ridimensionare, questa volta. Perché il presidente del Consiglio non può pressoché contemporaneamente ridurre la questione a mero aggiornamento statistico e poi legarne il via libera alla tenuta stessa del governo. O è una cosa o l’altra.
E quando la componente PD dell’esecutivo comincia a inondare l’etere con il refrain dell’irresponsabilità di un’eventuale crisi di governo in un momento drammatico come quello attuale, quasi la l’incolumità degli ucraini dipendesse dagli estimi italiani, il gioco appare scoperto. En plein air, direbbero i francesi. Popolo che pare stia guardando con molto interesse e attenzione a quanto accade al di là del confine di Ventimiglia, sentendo l’odore del sangue da shopping industriale e bancario a prezzo di saldo. E quando la stessa Europa che ha appena dato via libera preliminare a quei 21 miliardi - vero e proprio ossigeno per evitare l’asfissia da impossibilità di ulteriore scostamento - ammette che le sanzioni contro la Russia incideranno sui tassi di crescita, aprendo la strada a una Bce pronta ad archiviare ogni mossa restrittiva e all’ipotesi di ulteriore allentamento (se non sospensione) del Patto di stabilità, come si fa a dire di no e scatenare una crisi di governo?
Di fatto, oggi - parafrasando Agatha Christie - abbiamo la coincidenza del nostro commissariamento, Per la prova, a occhio e croce, occorrerà attendere solo pochi giorni. Probabilmente, proprio a ridosso del board Bce della prossima settimana. Perché un blitz come quello in atto sul catasto che vada a inserirsi in un orizzonte socio-politico che nel nostro Paese vede in vigore addirittura due stati di emergenza contemporanei (uno per il Covid, l’altro per la guerra) non può essere letto altrimenti, se non il primo, prepotente e arrogante ruggito della voce del padrone. Un primo, chiaro richiamo all’ordine dopo due anni di ricreazione gentilmente offerti da Christine Lagarde. E il nostro spread che imbocca il passo del gambero non mente: la guerra ha sciolto i nodi e allontanato i timori di una stretta sul regime di manipolazione dei premi di rischio. Ma tutto questo ha un prezzo: ad esempio, ingoiare acriticamente le riforma del catasto, spacciata per mera revisione tecnica ma esiziale per mantenere il vita l’esecutivo. Altrimenti, bentornato 2011.
Quello spread volerà a 200, poi 300 e poi 400. Il governo sarà in crisi e chi ne avrà sancito la fine - impuntandosi su questioni di estimi e cubature, mentre a Mariupol si muore sotto le bombe - ne sarà responsabile. E la campagna mediatica di linciaggio pare già scritta, al riguardo. Tutti tengono famiglia, elettoralmente parlando. E rompere oggi rappresenta l’azzardo del secolo: cosa garantirà maggiore beneficio nell’urna, il presentarsi come il difensore delle case degli italiani o il muoversi coperto e allineato con le direttive di Bruxelles? La decisione che nessun leader politico vorrebbe essere chiamato a prendere. Ma che, alla fine, difficilmente potrà essere evitata. Perché per quanto si voglia giocare con questa riforma la medesima carta di ridimensionamento utilizzata per mesi con l’inflazione, la questione immobiliare in Italia fa capo a qualcosa come 6mila miliardi di controvalore, stando a dati dell’Agenzia delle Entrate e del Dipartimento Finanze del MEF. Il 75,2% delle famiglie, due su tre, risiede in una casa di proprietà. Praticamente, il sangue del Paese.
Insomma, dopo mesi di spazzolature più o meno agevoli, ora il primo, vero nodo sta arrivando al pettine. E porta con sé una certezza: al netto della retorica che accompagnò lo sdegnato e orgoglioso no del governo Conte all’attivazione del MES, l’Italia sta già scontando condizionalità enormi legate al Recovery Fund e al piano attuativo del PNRR. E con l’aggravante di una riforma proprio del Meccanismo Europeo di Stabilità che rischia di trasformarsi fin da ora nel terzo indizio che fa la prova, visto che all’appello della sua ratifica parlamentare a livello Ue manca soltanto Roma. Quirinale e Palazzo Chigi non intendono - nemmeno in questo caso - lasciare margini di trattativa ai partiti: va votata. In fretta. E senza strappi.
E se passerà la delega fiscale con all’interno l’articolo 6, la strada sarà spianata. Ma a quel punto, ogni possibile concessione alla sostenibilità artificiale del nostro debito in sede Ue (Patto di stabilità) e Bce (prosecuzione degli acquisti sotto regime APP) vedrà un immediato processo di do ut des pronto a innescarsi. In sede di MES riformato, i fondi richiesti e raccolti sul mercato tramite l’emissione di MES-bond richiederanno garanzie. E collaterale. Siamo come la Grecia. E Cipro. Anzi, peggio. D’altronde, cosa disse Clemente Mastella durante la settimana della corsa al Quirinale? La vera garanzia del debito pubblico italiano sono i risparmi privati dei cittadini. Et voilà.
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