Competitività e produttività: salari o profitti troppo alti?

Luca Pezzotta

22 Novembre 2016 - 12:53

Con la crisi i ricchi sono diventati più ricchi ed i poveri più poveri. Davvero la distribuzione funzionale del reddito la quota capitale è aumentata e la quota lavoro diminuita?

Competitività e produttività: salari o profitti troppo alti?

Abbiamo visto in un paio di articoli precedenti quali sono, a termine del Global competitiveness report 2016/2017, redatto da parte del World economic forum, i punti deboli ed i punti di forza dell’economia italiana per quello che riguarda la competitività.

Non possiamo però ignorare il fatto che, troppo spesso, recentemente, la competitività è stata associata alla produttività per il fine, nemmeno troppo implicitamente nascosto, di prepararsi una scusa per poter sostenere a ragione e, poi, applicare la riduzione dei salari e/o deflazione salariale, associata ad una riduzione delle tutele. Infatti, è stato spesso sostenuto che la scarsa produttività, dovuta a stipendi troppo alti e alle troppe garanzie, era un limite alla nostra competitività che, così, non permetteva di misurarci in maniera adeguata con paesi dove le retribuzioni dei lavoratori e le tutele erano inferiori, con il solito leitmotiv classico della Cina: c’è la Cina!

Quindi, facendo leva su una bassa produttività, legata a salari troppo alti ed associata ad una bassa flessibilità, che faceva diminuire la nostra competitività, si è portata avanti la causa della deflazione salariale e della riduzione delle tutele come panacea di tutti i mali per la nostra economia.

Accantoniamo adesso la “questione” flessibilità - in caso si veda qui - e cerchiamo di vedere la questione dei “salari troppo alti”; dato che sembrerebbe ormai palese come la continua riduzione delle tutele, con la precarizzazione del rapporto di lavoro, non produca vantaggi - diciamolo così - per chi viene precarizzato, ma solo per chi precarizza (almeno in prima istanza). Inoltre, ricordiamo pure che la diminuzione delle tutele non sembrerebbe portare particolari vantaggi nemmeno per l’economia in generale. Cioè, la precarizzazione, che sembrerebbe risultare evidentemente vantaggiosa per la parte datoriale, non sembrerebbe poi, invece, espletare tutti questi effetti benefici sull’economia in generale. Infatti, l’abolizione dell’art. 18, l’introduzione di ulteriori elementi di flessibilità ed il Jobs Act, tutti provvedimenti tesi a ridurre le “vecchie e pesanti” tutele, “inadatte ai rapporti di lavoro moderni così dinamici”, non hanno fatto decollare l’occupazione e non l’hanno nemmeno rilanciata.

Il risultato è quello di una crescita con stime vengono sempre sistemate, ex post, al ribasso, che non permettono di vedere l’orizzonte della “fine crisi” nemmeno con il binocolo.

Per quanto riguarda quindi i “salari troppo alti”, che è quello che interessa ora, ci sono tutta una serie di ragioni per ritenere che l’espressione fosse allora, come ora, la solita scusa per rivedere al ribasso, con le tutele, anche le retribuzioni. Segnaliamo subito che i salari nominali, in economia, sono vischiosi per definizione; rifacendosi il concetto di vischiosità all’opposizione di resistenza da parte di una variabile al cambiamento e, quindi, già di per sé ci muoviamo in un campo abbastanza difficile, dove un’espressione come “salari troppo alti” potrebbe avere un significato talmente generale da non voler dire nulla se valutata nel particolare.

Infatti, come sopra accennato, i salari troppo alti erano, solo ed esclusivamente per proprio comodo, associati ad una scarsa produttività che limitava la nostra competitività; mettendoci nella necessità di ridurli per poter competere. Peccato, però, che i salari non siano né la misura della competitività e nemmeno quella della produttività.

Per la competitività rimandiamo ai due articoli sopra segnalati, mentre vediamo cosa sia la produttività. La produttività è il rapporto tra gli input e gli output: a parità di input è più produttivo chi ha un output maggiore; a parità di output è più produttivo chi ha un input minore. Il modello utilizzato per valutare la produttività - la misura della produttività (quella dell’economia tradizionale e mainstream, almeno) - è quello dei costi unitari del lavoro (ULC – Unit labor costs). I costi unitari del lavoro sono definiti come il rapporto della retribuzione complessiva del lavoro, salario monetario, e la sua produttività. Maggiori sono i costi unitari del lavoro, minore è la produttività.

Questo modello, però, trova già un suo limite nella letteratura economica. Infatti, l’economista Nicholas Kaldor, raccogliendo dei dati relativi ad alcune economie del secondo dopoguerra, dimostrò come quelle che acquisirono la maggiore fetta di mercato furono proprio quelle che più avevano perso in termini di produttività e competitività – conosciuto, in letteratura economica, proprio come il “paradosso di Kaldor”.

Di poi, se guardiamo pure ai dati sul sito dell’OCSE relativamente ai costi unitari del lavoro, per ora lavorata, indicizzati al 2010 (2010=100), tra 1990 e 2014, troviamo che tra Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania, quella che ha i maggiori costi unitari del lavoro è sempre stata proprio la Germania. Al secondo posto troviamo la Francia, mentre Italia e Gran Bretagna si dividono, nel tempo, il terzo gradino del podio. Questo non contrasta con il fatto che la Germania abbia fatto deflazione salariale con le riforme Hartz, significa solo che partiva da un livello di costi unitari più alto e che anzi, al massimo, ha deflazionato e può deflazionare di più.

Comunque sia, quello dei costi unitari, oltre ad essere un modello che potrebbe avere dei limiti come dimostrato dal paradosso di Kaldor, non dovrebbe essere un problema, in quanto i nostri costi unitari del lavoro, come dimostrato nei dati OCSE sono inferiori a quelli delle altre grandi economie dell’Europa (dopo la Brexit, nel senso di Europa geografica).

Inoltre, i dati che possiamo trovare sul sito dell’ILO (International labor office), relativamente alla quota lavoro in percentuale del PIL per l’Italia (Labour income share in Gross Domestic Product – adjusted), dimostrano che il trend della stessa è, dal 1995 anche se con fasi alterne, in diminuzione.

Ci sono poi in rete, ma anche in libri ed interviste, studi, articoli, riviste specializzate, dei dati che, oltre che a confermare che i salari reali stiano diminuendo in Italia da parecchio tempo, avallano questo dato rivelando come anche le diseguaglianze siano in aumento; con una classe media che sta scomparendo, ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. Cosa che confermerebbe anche come la redistribuzione del reddito non sia andata proprio a favore di quei redditi che solitamente sono rappresentati dai salari.

Quindi abbiamo una misura della competitività (ULC – costi unitari del lavoro) che ha ricevuto fondate critiche; costi unitari del lavoro inferiori o in linea a quelli delle altre grandi economie europee; una quota salario in diminuzione; salari reali in diminuzione da decenni; diseguaglianze in aumento; ed in mezzo a tutto questo … “i salari sono troppo alti”. Sembra evidente come non ci sia prova alcuna di ciò e che, pertanto, l’espressione risulti vacua alla prova dei fatti.

Pertanto, per quello che riguarda produttività e, con essa, la competitività, non si può sostenere che le stesse siano diminuite in relazione ad un eccessivo aumento dei salari reali perché non c’è stato nessun aumento dei salari reali che, anzi, sono in diminuzione da molti più anni di quelli che vengono riportati sul sito dell’OCSE.

Ma non è tutto. Ci sia invece permesso un “azzardo” per cercare di valutare cosa potrebbe effettivamente, in generale e non solo nel caso dell’Italia, influire - o aver influito - sulla diminuzione della competitività. Per fare questo, però, dobbiamo valutare i costi unitari del lavoro a livello aggregato. Troppo spesso tra l’altro, per calcolare questi costi in aggregato, si procede facendo una media ponderata dei costi stessi per le aziende. Questo è fuorviante, in quanto la misura della produzione aggregata non è una quantità fisica ma il valore aggiunto dell’economia e, pertanto, sarà necessario utilizzare il valore aggiunto. Il risultato è che la formula per calcolare i costi unitari del lavoro a livello aggregato, algebricamente, sarà data dai salari nominali sul valore aggiunto dell’economia in termini reali; e pertanto il valore aggiunto nominale sul deflatore del PIL (euro su base annua) diviso per il numero dei lavoratori, come risulta nella seguente formula:

ULC = wn / ALP = wn / ( VAr / L ) = wn / ( VAn / P ) / L

dove ULC sono i costi unitari del lavoro, wn è la media del tasso di salario monetario o compensazione del lavoro, ALP è la produttività media del lavoro, VAr è il valore aggiunto reale (in euro su base annua), L il numero di lavoratori e P il deflatore del valore aggiunto.

Quando però parliamo di valore aggiunto nominale (VAn – come nella seconda parte della formula), parliamo anche di salari nominali totali più profitti nominali (VAn = Wn+Пn). Se parliamo di salari e profitti, per forza di cose, parliamo anche di quota lavoro e quota capitale (quindi di distribuzione funzionale del reddito). Si, perché quello che infatti viene sempre sottovalutato è che le aziende – tutte le aziende – sopportano almeno due generi di costi: i costi unitari del lavoro ed i costi unitari del capitale (UKC – Unit capital costs). E se i costi unitari del lavoro possono fornire una misura della competitività dal lato del lavoro, i costi unitari del capitale potrebbero fornire una misura della competitività da parte delle aziende. I costi unitari del capitale (a livello aggregato) sono dati dal rapporto tra il tasso di profitto nominale e la produttività del capitale, quindi la quota capitale nel valore aggiunto moltiplicato per il deflatore del prezzo.

Se valutiamo anche i costi unitari del capitale, vediamo che la quota capitale è in aumento. Questo trova conferma nella diminuzione della quota lavoro (come detto sopra) e negli alti profitti (il profitto è la remunerazione del capitale) riportati comunque anche in tempi di crisi. Perché un’altra cosa che spesso sfugge è come i profitti siano tornati a livelli pre-crisi già da tempo, mentre i salari, secondo molti, dovrebbero essere ulteriormente tagliati. Quanto stiamo dicendo ci sembra avallato, nei fatti, anche dall’aumento delle diseguaglianze (ci sono studi in rete al riguardo facilmente reperibili).

Negli Stati Uniti, per es., la situazione è questa:

In rosso, scala di sinistra, abbiamo i “corporate profits” sul PIL; mentre con la linea blu, scala di destra, abbiamo i salari sul PIL. Dopo il crollo del 2008, la quota profitti è tornata subitaneamente a livelli addirittura superiori a quelli della crisi, mentre la quota salari ha bellamente continuato a scendere.

Invero, questo conferma anche per gli USA, come i dati dell’ILO per l’Italia, che la quota lavoro è in diminuzione. Non ci sembra necessario aggiungere ulteriori elementi e prove a quello che sosteniamo, in quanto riteniamo che l’aumento delle diseguaglianze un po’ dappertutto - ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri, nuovi milionari, nuovi poveri, ed una classe media che sta scomparendo - sommato a quanto esposto, sia sufficiente per avallarne il fondamento.

Concludendo, perciò, se valutiamo quanto detto, notiamo che la perdita di competitività non può essere stata il risultato di una scarsa produttività legata ai salari troppo alti o saliti troppo in fretta, perché i salari reali sono in diminuzione e non in aumento; la quota lavoro rispetto alla metà degli anno ’90 è in diminuzione; e i nostri costi unitari sono inferiori, o in linea, con quelli delle altre grandi economie europee. Senza considerare il fatto che basare la competitività o la produttività solo sulla valutazione dei costi unitari può risultare, alla luce del paradosso di Kaldor, un modo fallace di procedere.

Al contrario, i profitti e la quota capitale sono in aumento. Questo potrebbe legittimare a pensare che la perdita di competitività non sia tanto dovuta ad un saggio del salario che saliva troppo o che scendeva meno velocemente della produttività del lavoro (visto che per es. in Italia i salari reali scendono mentre la produttività sale) quanto, piuttosto, ad un saggio di profitto (il capitale nel lungo periodo perde produttività, mentre i profitti sono rimasti e poi, dopo la crisi, tornati a livelli elevati, per es. negli USA) che scendeva meno velocemente della produttività del capitale.

Quindi, quello che potrebbe aver contribuito – sottolineiamo il condizionale – alla perdita di competitività, più che lavoratori con troppe pretese salariali, potrebbe essere anche una questione di profitti troppo alti, a tutti i costi ed in periodi troppo brevi. Il problema nella perdita di produttività e competitività, pertanto, non sarebbe dovuta a lavoratori subordinati indolenti che pretendono salari troppo alti rispetto alla loro produttività; bensì una propensione al profitto troppo elevata rispetto alla produttività del capitale. Pertanto, potrebbe essere la troppa avidità di profitto il limite; e non le eccessive pretese salariali.

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