Gkn. Giannetti, Bayer, Timken: in tre settimane, un’emorragia. E mentre a Dresda, Bosch investe 1 miliardo nell’hub per produrre microchip (da settembre), qui ci culliamo sulle lusinghe della finanza
La variante Delta ha ufficialmente guadagnato il centro del palcoscenico. Ha scalzato il Ddl Zan senza difficoltà e anche la riforma della giustizia sta sudando sette camicie per evitare il poco onorevole trasloco dalle prime pagine a quelle interne. Green pass, il Sacro Graal dell’informazione. Tutto vi ruota attorno, tutto ne viene illuminato. Peccato che tutto intorno, il Paese cominci a bruciare.
Silenzioso come certi roghi estivi in pineta, contenibili se si interviene subito. E con una strategia. Altrimenti, destinati alla danza macabra dei Canadair. Nell’arco di tre settimane, già quattro multinazionali estere hanno detto addio all’Italia. Prima Gkn e Giannetti, balzate agli onori delle cronache solo per i metodi poco urbani con cui è stato comunicato ai lavoratori che erano licenziati: via mail. Poi, il caso più civile e soft della Bayer, la quale a fronte dello stop alla sede di Filago, nella Bergamasca, ha ricollocato essa stessa gran parte dei 62 lavoratori lasciati a casa, garantendo anche la metà della retribuzione annua lorda nei primi 12 mesi del nuovo lavoro. Resta però il fatto: la Bayer, multinazionale tedesca nota in tutto il mondo, se ne va.
E non da un’area depressa del Sud, bensì dall’operoso e infrastrutturalmente competitivo Nord. E pur di potersene andare, si sobbarca anche i costi. Oltre a un’operatività da job center. L’altro giorno, poi, l’ultimo caso. La Timken di Villa Carcina in Val Trompia, provincia di Brescia, multinazionale leader nel settore dei cuscinetti ingegnerizzati per l’automotive, chiude lo stabilimento per ottimizzare la attività e riorganizzare l’assetto produttivo e minaccia di lasciare a casa i 106 lavoratori. Ancora il profondo Nord, ancora l’automotive, ancora un’azienda estera. Senza contare poi i capitoli aperti da mesi come quello della Whirlpool di Napoli, tornato prepotentemente alla ribalta in questi giorni e ore.
Nemmeno l’amuleto Draghi è riuscito a frenare questa emorragia. L’unica che conta davvero, poiché tutti gli altri indicatori economici, ora come ora, valgono zero. O poco più. Perché manipolati. Dalla Bce come dai regimi di deroghe, supporti, aiuti e blocchi emergenziali posti in essere dagli Stati come risposta al Covid. I quali ora cominciano a scadere. Ad esempio, il blocco dei licenziamenti. Non appena lo starter di Palazzo Chigi ha sparato e dato il via libera, quattro multinazionali hanno salutato. Anche in questo caso, la chiarezza latita. Qualcuno parla di un diluvio di tagli, altri invece negano la dinamica e anzi sottolineano un aumento di offerte di assunzione cui spesso è difficile raggiungere un matching rispetto a domanda specializzata.
Poco importa, almeno rispetto ai quattro casi presi in esame: a fronte di una cessazione di attività come quella posta in essere, il regime di divieto di licenziamento equivaleva ad acqua calda. Ma hanno aspettato l’eliminazione del divieto, quantomeno a livello di effetto psicologico nei confronti delle istituzioni. Le quali, infatti, per un giorno o due hanno rilasciato dichiarazioni in punta d’indignazione sui metodi di comunicazione utilizzati, hanno convocato le parti al ministero del Lavoro e dello Sviluppo economico ma poi hanno fatto ciò che il regime Covid permanente consente loro; promettere aiuti, forti dei circa 40 miliardi di fondi europei SURE già incassati dal nostro Paese. Una cosa è certa, la variante Delta è arrivata al momento giusto. Giustissimo.
A ridosso del board Bce e soprattutto della scadenza dei piani di sostegno governativi all’economia, in Europa come negli Usa. E il problema rischia di richiedere altre ondate di contagio: la quinta, la sesta, la settima. Fino all’endemia. Perché la produzione industriale a maggio nell’eurozona ha registrato un decremento mensile dell’1% dopo il +0,6% di aprile (rivisto da +0,8%) contro le attese del mercato di un -0,2%. Calo anche su base annua, visto che la produzione ha registrato un aumento del 20,5% contro previsioni di un +22,2% e dopo il +39,4% del mese precedente (rivisto da +39,3%). Insomma, si rallenta. E da prima che la variante facesse capolino. E con una prospettiva per l’autunno tutt’altro che incoraggiante.
Questo grafico
Fonte: Commissione Ue/Barraud.com
mostra il risultato del sondaggio condotto fra le aziende dell’eurozona dalla Commissione UE in vista proprio della pubblicazione del dato Eurostat sulla produzione industriale. L’impennata vissuta nelle ultime settimane dalla criticità che i manager aziendali europei ritengono prioritaria come voce limitante della propria produttività è il corrispettivo del grido sulla nudità del Re: la scarsità di componenti. In primis, microchip, semi-conduttori e circuiti integrati. Ma non solo, perché i prezzi alle stelle di molte materie prime e ora anche dei trasporti merci via container rischiano solo di aggravare ulteriormente la situazione, in vista delle riaperture totali proprio dell’autunno.
Quanto durerà la crisi delle componentistica? Si risolverà entro l’anno o come temono molti analisti e addetti ai lavori esonderà per tutta la prima metà del 2022? Senza quei semi-conduttori, salta tutto. E la Bce non può fare nulla, al riguardo. Nulla. Se non continuare a comprimere artificialmente gli spread sovrani. E calciare in avanti il barattolo. Non a caso, la Bosch ha investito 1 miliardo di euro in un nuovo impianto a Dresda che entrerà in funzione a pieno regime già a settembre.
Fonte: Bosch
Fonte: Bosch
Chip per semiconduttori su un wafer da 300 millimetri che, nel nuovo hub, sposteranno in avanti l’idea stessa di manifattura di quelle componenti essenziali, grazie all’utilizzo dell’intelligenza artificiale: Porteremo la produzione al livello superiore, ha dichiarato il numero uno di Bosch Gmbh, Volkmar Denner.
E si comincia subito: deciso in primavera, annunciato a fine maggio, operativi a settembre. Paradossalmente, già in ritardo rispetto alla crisi del comparto.
Fonte: Bosch
Ma sideralmente avanti rispetto a un Paese che gioca alle tre carte con le cifre del Pil, mentendo a se stesso quando lucida quel +5% come le maniglie del Titanic, visto che occorrerebbe fattorizzare queste criticità e soprattutto la base di partenza da cui trae linfa quel rimbalzo. Ovvero, lo sprofondo da Seconda Guerra Mondiale del 2020.
Ma poco importa di guardare cosa accade a Taiwan e la risposta che offrono a Dresda, qui ci culliamo sulle parole di Jamie Dimon, patron di JP Morgan, il quale ha sentenziato che questo è il momento giusto per scommettere e investire in Italia, stante il combinato di sostegno record del Recovery Fund e presidenza Draghi. Da quando ha parlato, quattro nuove crisi industriali. Ovviamente, una mera coincidenza. Ma queste due immagini,
Fonte: Bloomberg/Zerohedge
Fonte: Credit Suisse
invece, parlano chiaro sul grado di tara che occorrerebbe fare alle sviolinate dei banchieri di investimento, soprattutto d’Oltreoceano. Se il primo mostra la dinamica figlia delle logiche distorte da Qe nella ratio riserve/prestiti del primo istituto Usa, il secondo compara l’operatività di JP Morgan e Bank of America nel secondo trimestre.
Quest’ultima ha utilizzato fondi per acquistare 40 miliardi in Treasuries e 40 in Mbs, a prescindere dal rendimento che offrivano, mentre Jamie Dimon in prima istanza ha operato in base al times the market, acquistando solo quando gli yields erano alti e negli ultimi tre mesi non ha comprato affatto, di fatto operando in modo tale da tenere il livello di G-Sib surchargers sotto il 4,5% per l’anno in corso. Tutto sacrosanto. E per il bene della banca e degli azionisti.
Ma sorge il dubbio se non sia il caso di guardare maggiormente all’esempio che arriva da Dresda, piuttosto alle lusinghe di chi - giustamente - fa unicamente l’interesse del soggetto privato che guida. Interesse che risponde unicamente al concetto di profitto, spesso associabile a quello di speculazione. E al netto di un panorama macro che attorno a noi comincia a bruciare. Per davvero.
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