L’avanzamento della tecnologia crea nuova disoccupazione? La disoccupazione tecnologica teorizzata da Keynes già 85 anni fa è un fenomeno attuale e ancora controverso.
Disoccupazione tecnologica: che cos’è? Il risultato del progresso.
John Maynard Keynes nel 1930 ne parlava in questi termini:
“Siamo affetti da una nuova malattia di cui alcuni lettori non hanno forse ancora letto il nome, ma di cui sentiranno molto parlare negli anni a venire e cioè la disoccupazione tecnologica. Ciò significa una disoccupazione causata dalla scoperta di strumenti atti a economizzare l’uso di manodopera e dalla contemporanea incapacità di tenerne il passo trovando altri utilizzi per la manodopera in esubero”.
Il lavoro del futuro sarà degli uomini o dei robot? Questo è l’interrogativo che vi abbiamo posto tempo fa sul rapporto tra lavoro umano e macchine/robot. In che misura inciderà sul mercato del lavoro questa relazione?
Rispondere a questa domanda è un’operazione ardua perché le variabili in gioco sono molteplici e soggette a continui cambiamenti. Le correnti di pensiero più diffuse tra gli economisti sono due, procediamo per gradi.
L’economista di Harvard Lawrence Katz avanza un dubbio: le nuove tecnologie hanno creato disoccupazione a lungo termine?
Rodney Brooks, creatore del robot Baxter di Rethink, nato per svolgere mansioni ripetitive e molto collaborativo, si difende:
“I robot aumentano la produttività, incrementano l’efficienza di chi lavora, senza intaccare l’occupazione”.
John Leonard, docente di ingegneria al MIT e membro del Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory (CSAIL), rincara la dose:
”Non credo che le macchine sostituiranno del tutto chi lavora. Non si può ancora fare a meno di chi guida”.
L’idea della “terza via”, ovvero quella collaborazione, è condivisa da molti per un motivo molto semplice: la tecnologia migliora il lavoro umano, ma non può sostituirlo e più efficienza può voler dire maggiore possibilità di crescita per l’azienda.
Chi c’è dietro le azioni di un robot? Una mente umana, esperti di software, abili conoscitori di algoritmi complessi che muovono quelle azioni. Nessun calcolatore può sostituire la ragione. Nessuna macchina potrà fronteggiare i cambiamenti e le situazioni imprevedibili come un essere umano.
Eppure il professore della MIT Sloan School of Management Eric Brynjolfsson e il suo collaboratore Andrew McAfee sostengono un’altra corrente. Secondo gli studiosi la tecnologia ha distrutto lavoro in maniera molto più veloce di quanto ne abbia creato: a breve molti lavori, non solo quelli più vulnerabili all’automazione, ovvero quelli che prevedono una buona dose di routine, dovranno far fronte ad una capillare diffusione dei robot. E questa è una tendenza che si riscontra negli USA, così come negli altri Paesi tecnologicamente avanzati.
Presto non solo il settore manifatturiero o le attività al dettaglio saranno nel mirino della tecnologia, ma anche campi più complessi: la medicina, la finanza, l’assistenza ai clienti (esempio nei call center), il settore legale.
La tecnologia uccide il lavoro umano?
Nel grafico seguente Eric Brynjolfsson mostra l’andamento di produttività e occupazione negli USA dal 1947 al 2003. Tra le due linee a partire dall’anno Duemila si è verificato il cosiddetto “grande disaccoppiamento”: se prima le due linee crescevano in maniera proporzionale, dal 2000 la produttività cresce, mentre l’occupazione cala.
Il “più grande paradosso della nostra epoca” è spiegato da Brynjolfsson:
“La produttività è a livelli record, l’innovazione procede con ritmi mai visti in precedenza, ma allo stesso tempo assistiamo a una caduta del reddito medio e dell’occupazione. Ciò accade a causa dei progressi tecnologici e della nostra incapacità di tenerne il passo”.
Facendo un rapido excursus comprendiamo il senso di queste parole: dalla rivoluzione industriale la tecnologia ha cambiato il mercato del lavoro, facendo sparire, o comunque ridurre drasticamente, dei mestieri.
Se nel 1900 il 41% degli americani era impiegato nel settore primario, nel 2000 la percentuale è calata vertiginosamente, toccando il 2%. Allo stesso modo dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi i dipendenti del settore secondario sono passati dal 30% al 10% proprio per l’introduzione delle macchine.
Da un’analisi realista e consapevole possiamo asserire che ciò che è sicuramente vero è che l’uso sempre più esteso delle tecnologie ha ampliato il divario tra chi sa utilizzarle e chi no. E questo ha un’incidenza sull’aspetto retributivo.
Potrebbe essere uno shock passeggero? Forse è una transizione obbligata. Quando i dipendenti aggiorneranno la loro formazione e le loro capacità e i datori saranno in grado di creare opportunità di lavoro proprio da queste nuove tecnologie, la disoccupazione tecnologica potrebbe divenire occupazione. E’ la storia, così sostiene l’economista del MIT David Autor.
Ma da comuni mortali non sappiamo quali strade potrebbe prendere il progresso.
Chi va e chi resta?
A questo punto chi ha ragione e chi torto? Come rispondere a Lawrence Katz, che relazione c’è tra tecnologia e disoccupazione? Il progresso inevitabilmente produce un cambiamento. In meglio o in peggio? Dipende dai punti di vista.
La tecnologia e il progresso stanno cambiando il mercato del lavoro, che si dirige a passo spedito sempre più verso il mondo digitale. Ne deriva che molti mestieri sono scomparsi (prevalentemente impiegatizi), a vantaggio di quelli impossibili da automatizzare. Saranno sempre più rari i casellanti delle autostrade, i cassieri delle banche, così come quelli dei grandi ipermercati.
Tuttavia, ciò non significa che le «professioni scomparse» non verranno sostituite da quelle più «al passo con i tempi» ed adatte al nuovo momento storico.
E’ certo, invece, che la classe media ha subito un duro colpo, non solo a causa della crisi, piuttosto in nome della concorrenza dei software.
Si assiste così ad una dicotomizzazione del mercato del lavoro: da una parte i lavori di bassa manovalanza, i “nuovi artigiani”, come li definisce Katz, ovvero elettricisti, carpentieri e simili, dall’altra le professioni altamente qualificate, quelle che verranno potenziate, piuttosto che distrutte dalla tecnologia.
In riferimento agli USA le classifiche seguenti mostrano i lavori in crescita e quelli più vulnerabili (dal 2000 al 2010).
Una più recente classifica stilata dal Wall Street Journal mette in luce che i 10 lavori più richiesti e remunerati del futuro negli USA saranno (per conoscere le professioni del futuro nel Vecchio Continente clicca sul link) :
- Infermieri (+22%)
- Commercialisti e revisori dei conti (+21%)
- Analisti di gestione (+23%)
- Sviluppatori di applicazioni per computer (+24%)
- Medici chirurghi (+21%)
- Analisti di sistemi informatici (+20%)
- Ricercatori di marketing (+28%)
- Ingegneri civili (+24%)
- Igienisti dentali (+36%)
- Promotori finanziari (+30%).
A queste si aggiunge la figura del blogger (in crescita anche in Italia). Negli USA circa 1,7 milioni di blogger guadagnano fino a 75.000 dollari l’anno, sfruttando le potenzialità del web.
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