Disoccupazione tecnologica: in un’epoca dominata dalla rivoluzione digitale, a rischio non sono più solo i cosiddetti lavori ripetitivi, ma anche quelli che richiedono competenze specifiche. A lanciare l’allarme è l’autorevole settimanale britannico Economist, vediamo insieme che cosa dice.
Disoccupazione tecnologica, due parole che messe insieme possono sembrare quasi un ossimoro, abituati come siamo a considerare il progresso come un meccanismo sempre foriero di benessere sociale. Il settimanale britannico Economist, tuttavia, in un recente articolo ha voluto analizzare la situazione più da vicino, lanciando un allarme che ha attirato l’attenzione di molti.
Il progresso fa perdere sempre posti di lavoro?
Da un certo punto di vista, infatti, il magico elisir del progresso ha sempre comportato una perdita di posti di lavoro. La rivoluzione industriale nel diciottesimo secolo ha inevitabilmente spazzato via i tessitori artigianali, soppiantati dal telaio meccanico. Negli ultimi trent’anni, invece, la rivoluzione digitale ha sostituito molti di coloro che svolgevano i cosiddetti “mid-skill jobs” tipici della classe media del 20 esimo secolo. Dattilografi, bigliettai e cassieri di banca sono stati semplicemente rimpiazzati, come accadde all’epoca per i tessitori.
La differenza, però, sta nel fatto che il progresso tecnologico negli anni passati ha reso il mondo un luogo migliore, dove sì alcuni posti di lavori scomparivano, ma per fare posto a nuove e migliori opportunità di impiego, tipiche di una società più ricca dove gli abitanti chiedono sempre maggiori quantità di beni e servizi. E’ infatti vero che cent’anni fa in America un lavoratore su tre era impiegato in una fattoria, mentre oggi il settore produce più cibo con meno del 2 per cento di addetti, tuttavia i milioni di lavoratori liberati dai campi non sono andati a ingrossare le fila dei disoccupati, ma sono riusciti, invece, a trovare lavori meglio retribuiti.
A rischio il 47% dei posti di lavoro
Nell’attuale contesto, però, forse qualche timore è giustificato. Secondo l’Economist, infatti, l’impatto della tecnologia sull’occupazione avrà gli stessi effetti di un tornado, che colpirà prima le economie industrializzare per poi allargarsi anche verso i Paesi più poveri. E nessun Governo è preparato a questo. La storia, da questo punto di vista, sembra destinata a ripetersi: come nella prima fase della rivoluzione industriale, infatti, la prosperità scatenata dalla rivoluzione digitale è andata in gran parte ai proprietari del capitale e ai lavoratori altamente qualificati. I numeri lo dimostrano: negli ultimi tre decenni la percentuale di incidenza del lavoro sulla produzione globale si è ridotta, passando dal 64 per cento fino al 59 per cento. La disoccupazione ha raggiunto livelli allarmanti in gran parte del mondo industrializzato, e se finora i lavori più vulnerabili sono stati quelli ripetitivi, le innovazioni tecnologiche già nei prossimi anni potrebbero intaccare anche professioni maggiormente qualificate. Un recente studio dell’Università di Oxford suggerisce addirittura che il 47 per cento dei posti di lavoro possa essere automatizzato nei prossimi due decenni.
Un’analisi che fa riflettere, dunque, perché in uno scenario così delineato a rischiare maggiormente sono i lavori più in basso nelle attuali scale professionali (logistica e trasporto merci), mentre le competenze meno vulnerabili all’automazione saranno quelle legate alla creatività e alle competenze manageriali. Una situazione destinata a far crescere la già imponente rabbia verso le disuguaglianze, e che la classe politica farà molta fatica a gestire.
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