Non si sale al Quirinale, abbandonando un vertice Ue, solo per un ammutinamento in sede di Milleproroghe, da sempre l’assalto alla diligenza dell’identità elettorale. C’è dell’altro. Che si avvicina
Non prendiamoci in giro. E non scomodiamo la poca dimestichezza del protagonista con i riti della politica. Mario Draghi è molto più politico della gran parte dei leader di partito. O, quantomeno, lo è la sua agenda. Non si abbandona un vertice europeo perché il governo è andato sotto quattro volte in sede di Milleproroghe, notoriamente il baluardo di ogni assalto alla diligenza per rivendicare le identità di partito e i propri interessi di parte.
Soprattutto accampando come scusa quella di dover preparare il viaggio a Mosca per tentare una mediazione fra Putin e Zelensky: il meeting Ue che il presidente del Consiglio ha disertato era sì quello fra Europa e Paesi africani, iniziato al termine di quello urgente sulla situazione di Kiev ma se davvero in pentola bolliva una volontà di grande sforzo diplomatico, forse la sede più adatta per organizzare quello sforzo era proprio Bruxelles e non Roma. Non si lascia il proprio intervento da leggere a Emmanuel Macron, se non c’è qualcosa di grave. Ma in cima alla lista delle cose che non tornano, c’è quella salita al Colle. Atto non esattamente quotidiano per un capo del governo: le consultazioni con il Presidente si riservano ai momenti o di crisi o di particolare pericolo.
Nessuno nell’entourage delle due istituzioni ha reso noto come l’argomento di discussione sia stato l’aggiornamento rispetto alle posizioni europee sull’Ucraina. Anzi, ai giornali è stato fatto filtrare in maniera quasi ufficiale il disappunto di Mario Draghi per quei quattro voti contrari alla linea di governo: Così non si va avanti, avrebbe detto prima al Presidente della Repubblica e poi ai partiti. Ma non si scomoda lo spettro delle dimissioni per il limite al contante riportato a 2.000 euro. Soprattutto quando si è appena ammesso che la misura bandiera del famoso Pil al 6,5% si è sostanziata in una delle più grandi truffe della storia della Repubblica.
Poi, il giorno dopo, la pantomima. Trovati non si sa come e dove 6 miliardi per tamponare il caro-bollette di famiglie e imprese senza ulteriore scostamento di bilancio, come imposto da Vladis Dombrovskis, il presidente del Consiglio ha vestito i panni del poliziotto buono, lodando i suoi ministri e rivendicando un governo bellissimo. Insomma, una recita a soggetto. Anche mal riuscita. Con sullo sfondo non tanto il caos ucraino, quanto questo:
mentre a Roma si consumava lo psicodramma del Milleproroghe, Bloomberg pubblicava la notizia – non smentita dalla Bce – in base alla quale nel board della Banca centrale ci sia ormai una sostanziale convergenza di vedute a favore di un rialzo dei tassi per quest’anno al fine di inviare un segnale contro l’over-shooting inflazionistico.
Per ora un solo ritocco, prezzato per dicembre, poiché ottobre viene ritenuto troppo vicino e in novembre non è prevista riunione del Consiglio. Ma è altro che interessa. La fine degli acquisti. Ovvero, terminato il Pepp il 31 marzo, l’incombenza di sostenere artificialmente gli spread passerà all’App per 40 miliardi al mese nel secondo trimestre e 20 miliardi nel terzo. Concluso il quale, mare aperto. E senza salvagente o gommone di scorta. Non a caso, lo spread continua a restare alto. Nonostante i palesi interventi della Bce per tamponare eventuali avvitamenti auto-alimentanti al rialzo. Il mercato già prezza quanto la politica finge di non vedere: l’insostenibilità del nostro debito, una volta terminato il regime emergenziale.
Non a caso, Mario Draghi ha rotto gli indugi: a giorni sarà presentato il crono-programma delle riaperture e della fine di alcune restrizioni. Tutto sta però a quanto accadrà da qui al 31 marzo, data di fine del Pepp e dello stato di emergenza. Anzi, come dice Bloomberg, tutto si concentra sul 10 marzo, data del board Bce in cui Christine Lagarde dovrà finalmente dire una parola chiara rispetto le prospettive monetarie post-Covid. E con tutta Europa già riaperta. Compresa l’Austria, il cui durissimo obbligo vaccinale per tutti è morto prima di nascere: decadrà infatti il 5 marzo, quando avrebbe dovuto entrare in vigore. Il crollo di valore del bond a 100 che tanto fece inorgoglire Vienna ha suonato l’allarme. Quindi, addio linea dura.
E ora, che fare? Mario Draghi ha di fronte a sé alcune priorità, prima delle quali le circa 350 nomine nelle controllate pubbliche, da Snam a Rai a Italgas, passando per Invitalia e Fincantieri, Sace e Simest. Insomma, ciò che davvero conta. Non le teste d’alce del Milleproroghe da mostrare nei comizi di piazza, tanto per tener buona la base elettorale. Poi, una volta rimessa in equilibrio la spina dorsale dello Stato, l’incidente controllato potrà avvenire in ogni momento. Quanto accaduto nei giorni scorsi rappresenta una prova generale, un assaggio di crisi annunciata. Mario Draghi, forse influenzato dal clima di crisi asimmetrica in Ucraina, sta preparando il terreno alla false flag che ponga fine al suo esecutivo? D’altronde, lui un altro lavoro può trovarselo da solo.
E in sede europea il Risiko è già sottotraccia, visto che più di un rumors accredita addirittura la sedia di Christine Lagarde come tassello che faccia partire le danze del grande rimpasto: Emmanuel Macron la vorrebbe premier, in caso di vittoria alle presidenziali. A quel punto (e dopo la messa in minoranza nel board per il policy error di valutazione sull’inflazione), un suo ritorno in patria potrebbe scompaginare molte caselle. Fino a quella di Ursula Von der Leyen, la cui fretta nello spingere verso una transizione verde senza cautele a detta di molti - per ora, sottovoce - sarebbe alla base dell’attuale crisi energetica.
E l’Italia? Al voto a giugno? Nemmeno per scherzo. Nel momento stesso in cui cadesse il parafulmine di Mario Draghi, si aprirebbero le cataratte delle sell-off obbligazionarie sui Btp, spedendo lo spread alle stelle in contemporanea con il drastico tapering degli acquisti. La tempesta perfetta. E, oltretutto, totalmente ascrivibile all’irresponsabilità e all’egoismo rivendicativo di parte dei componenti del governo. Ovvero, i partiti. A questo è servita l’irrituale spettacolarizzazione dell’incidente sul Milleproroghe, a preparare l’opinione pubblica nell’identificare a colpo sicuro il colpevole della prossima crisi. A quel punto, seppur sotto forma soft di ennesimo esecutivo emergenziale, il MES diverrebbe esiziale per mantenere l’accesso ai mercati di finanziamento.
Quindi, il Quirinale imporrebbe come prioritaria la ratifica della riforma del Meccanismo europeo che ancora giace in fondo ai cassetti. E che Mario Draghi ben si guarda dall’intestarsi come atto politico, al fine di evitare lo stigma del commissariamento nella sua legacy. Ma, de facto, sarà quello cui il Paese andrà incontro. Soprattutto alla luce di un Def che quest’anno andrà presentato prima del previsto e quindi preparato con largo anticipo. A quel punto, sotto dettatura. E con lo spread a 400, nessuno sarà più tentato da blitz in Commissione. Ma, soprattutto, nessun cittadino sarà così avventato da chiedere il voto. Dopo la paura del Covid, quella della Grecia. L’unico comun denominatore della nostra discesa verso l’ineluttabile. O, magari, questa è solo fantapolitica. E andrà tutto benissimo.
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