Goldman Sachs e la rivolta degli analisti: quando il troppo lavoro è un problema culturale

Pierandrea Ferrari

24/03/2021

La denuncia dei giovani analisti di Goldman Sachs ha scoperchiato il vaso di Pandora: orari impossibili, deadline irrealistiche e ritmi forsennati. Ma svela anche i passi indietro delle banche sul fronte della cultura del lavoro dopo i tanti proclami degli scorsi anni.

Goldman Sachs e la rivolta degli analisti: quando il troppo lavoro è un problema culturale

Troppo lavoro. Questa, in sintesi, la denuncia degli analisti di Goldman Sachs che continua a tenere banco negli Stati Uniti. Tra orari impossibili, notti in bianco, deadline irrealistiche e vessazioni lo scenario dipinto dai giovani banchieri dell’istituto newyorchese getta ombre sul sistema bancario e vede naufragare le (tante) promesse di cambiamento sul fronte culturale.

Culturale, perché se è vero che la pandemia ha portato in dote un carico extra per i novellini di Wall Street, lo sfruttamento del lavoro continua a rimanere l’architrave del business bancario anche in tempi di magra, in un perverso rito di passaggio che premia con la medaglia al valore i (pochi) banchieri in grado di stare al gioco, seppure a costo del deterioramento della propria salute fisica e mentale.

Il troppo lavoro è un problema culturale

In breve, una cultura disfunzionale, che pure le banche avevano giurato di combattere solo pochi anni fa. Dopo la morte di alcuni giovani banchieri Goldman Sachs, Bank of America ed altri istituti di primo piano avevano infatti deciso di riconoscere, in una sorta di statuto dei lavoratori non ufficiale, almeno un giorno di riposo durante i fine settimana, troncando (sulla carta) un workflow che per tradizione non conosce confini di tempo.

Ma le promesse sono fatte per essere tradite e le cattive abitudini per restare, verrebbe da dire, perché passata l’ondata di commozione per i giovani caduti sull’altare di Wall Street le banche hanno ripreso a correre e gli analisti sono tornati “a fare nient’altro che lavorare dalla mattina fino a mezzanotte”, citando un passaggio del sondaggio-denuncia dei ribelli di Goldman.

Certo, nel corso dell’ultimo anno l’ondata di Ipo sulla piazza finanziaria statunitense e il consequenziale successo delle Spac ha fatto montare il carico di faldoni sulle scrivanie dei giovani banker, comunque ben pagati, ma ci si chiede perché le grandi banche di investimento – che pure non hanno generalmente problemi di liquidità – non fronteggiano il lavoro extra con nuove assunzioni che possano integrare e supportare i lavoratori sotto pressione.

E la risposta ci porta proprio nel nucleo della questione: le lunghe giornate spese dietro le pratiche da sbrigare e le notti insonni – in una allarmante degenerazione della balance lavoro-vita privata – non sono utili sono a misurare la fedeltà dei banchieri di domani, ma anche a scremare il personale tra chi arriverà nell’olimpo finanziario e chi dovrà trasmigrare verso altri lidi. Insomma, un banco di prova che porta i giovani analisti a competere gli uni con gli altri per strappare il pass per la finanza che conta, ma a caro prezzo.

Ma questa cultura, che affonda le sue radici nella tradizione e segue i dettami del lavoro oltre ogni limite come se fosse un vangelo scolpito nella pietra, non solo mina la salute dei banker che muovono gli ingranaggi dal basso, ma è anche del tutto anacronistica in una stagione in cui il benessere dei dipendenti e la flessibilità del lavoro sembrano essere destinati a prendere spazio.

Il CEO di Goldman Sachs affronta le accuse

Una postilla finale sul CEO di Goldman Sachs, David Solomon, che nelle ultime ore ha deciso di affrontare il capitolo dei giovani pasdaran della banca, coperti dall’anonimato. “Si tratta di qualcosa che io e il mio team stiamo prendendo molto sul serio”, il commento del numero uno dell’istituto USA secondo una trascrizione del Guardian, ricordando però che gli sforzi richiesti ai banker possono “fare la differenza nella nostra performance”. Insomma, Solomon fa un passo avanti e uno indietro.

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