Putin non è mai stato un pacifico progressista. Ma Roma lo «frequentava» senza problemi. Dopo aver flirtato con la Cina. Ora l’America vuole la «prova d’amore». E noi un prestatore di ultima istanza
Fino a un mese fa, Vladimir Putin non era certo classificabile come un leader pacifico e di vedute progressiste. Oltretutto, almeno dal tardo autunno del 2021 l’intelligence Usa martellava con continui report rispetto la sua volontà di invadere l’Ucraina. Nonostante questo, fino a non più tardi del mese di febbraio, l’Italia operava in modalità business as usual con la Russia: prima la riunione dei principali CeO con l’inquilino del Cremlino in persona, talmente felice di investire da offrirci gas a prezzo di favore, poi addirittura la delegazione governativa che cercava opportunità per Ansaldo e soci. Questo mentre a Bruxelles si decideva se porre sanzioni sull’export energetico russo e bandire le banche da SWIFT.
Un po’ troppa disinvoltura, insomma. Perché l’Italia dipende totalmente dal gas russo e le nostre banche hanno qualcosa come 25 miliardi die esposizione al sistema di quel Paese ma, contestualmente, fa parte della Nato. E certe bizzarrie sono concesse solo alla Turchia, Roma deve mantenere un certo livello di aplomb. Oltretutto, dopo aver pesantemente urtato la suscettibilità di Washington con la firma del memorandum con la Cina sotto il primo governo Conte. Insomma, è ora di farsi perdonare. Di fornire a Washington la prova d’amore.
Ecco spiegato l’atteggiamento da falco del governo, come sottolineato brutalmente l’altro giorno da Mosca. Il problema dell’Italia con l’elmetto sta tutto in questa immagine,
ovvero nella copertina dell’ultimo numero dell’Economist: un nuovo ordine mondiale contrapposto a quello occidentale è nato. E il diktat statunitense è ora molto chiaro: fino a quando si aveva a che fare con nazioni potenti - a livello produttivo e di materie prime - ma ancora emergenti e quindi totalmente dipendenti dai supermarket a cielo aperto del consumo occidentale per crescere, l’intelligenza (e il business) con il nemico andava bene. Ora non più. Non pubblicamente, almeno.
E l’Italia con le sue ultime due sortite economico-diplomatiche con vista sul Cremlino ha decisamente esagerato. Il ministro Guerini così come il ministro Di Maio non temono le minacce russe, bensì sono vittime della sindrome Kissinger. Perché quando l’allora ministro degli Esteri, Aldo Moro, superò il limite dando vita al suo lodo di mutua tolleranza con il fronte armato palestinese e soprattutto si spinse oltre nel progetto di inclusione del PCI al governo, l’allora segretario di Stato Usa lo minacciò in maniera palese di ripercussioni. Era la fine di settembre del 1974. Come sia andata a finire la storia, è noto.
Perché certi equilibri non vanno intaccati. O, quantomeno, occorre conoscere quale sia la linea rossa da non oltrepassare. E fra Cina e Russia, Roma ha sconfinato in maniera debordante negli ultimi anni. Perché per quanto le bombe possano portare automaticamente dalla parte del torto chiunque e le immagini delle vittime civili dar vita a reazione estreme, l’Italia ha mutato radicalmente approccio verso Mosca. E in tempo record, perché fino a quando le pressioni di stampa non si sono fatte insopportabili con la pubblicazione del resoconto sul viaggio delle delegazioni italiana a Mosca, Mario Draghi cercava ancora disperatamente di salvare Sberbank dall’estromissione da SWIFT.
Un altro sintomo della bruttissima posizione in cui si trova il governo? Paradossalmente, la fornisce l’unico partito di opposizione. La numero uno di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, è sparita dai radar. Nonostante sondaggi che vedono la sua formazione come primo partito a livello nazionale, negli ultimi giorni il basso profilo appare addirittura parossistico. Ogni tanto un tweet contro il green pass e il caro-bollette ma sul tema dirimente, silenzio. La ragione? Forse va cercata nel suo recente viaggio di accreditamento politico Oltreoceano, precisamente alla convention dei Repubblicani in Florida. Un successone. E un tesoretto politico di fondamentale importanza per chi, giustamente alla luce dei numeri, ormai non nasconde più la sua volontà di scalata a Palazzo Chigi.
Inoltre, l’Italia ha un problema. Enorme. Quanto il suo debito. Il quale difficilmente sarà sterilizzabile in automatico presso la Bce ancora per molto. E, anzi, se per caso Christine Lagarde verrà spinta all’addio anticipato in favore di una chiamata della Patria nel governo che Macron varerà dopo la vittoria alle presidenziali, la guida della Banca centrale post-Pepp rischia di terminare in mano a un falco. Occorre trovare un’alternativa, prima che lo spread mandi all’aria i piani. Il primo governo Conte oscillò in maniera imbarazzante fra l’ipotesi fantascientifica di acquisti diretti della Fed sotto l’amministrazione dell’amico Trump e quella opposta, ovvero sondare l’inconsistente pista russa e infine quella della Pboc cinese dopo la firma del memorandum.
Mario Draghi invece segue la ricetta di Gordon Gekko: non lanciare freccette su un bersaglio ma puntare solo sul sicuro. Ovvero, JP Morgan, BlackRock e Citadel. Di fatto, il vero governo degli Stati Uniti. Fuor di retorica cospirazionista, poiché parla in tal senso la dettatura pedissequa imposta alla politica monetaria e del Treasury contro la pandemia. E questo grafico
mostra come la guerra, se ben gestita, garantisca ritorni straordinari alla Borsa: quello nell’immagine è l’andamento dello Stoxx 600, l’indice benchmark europeo. Guarda caso, da quando l’Europa ha intrapreso una dirittura operativa da falco nei confronti della Russia, tutti i cali legati ai timori di un’escalation del conflitto sono stati recuperati a tempo di record. Siamo nel pieno di un nodo spartiacque. E ridurre tutto al millenarismo da lotta fra il Bene e il Male rischia soltanto di intorbidire acque che una reale e ultimativa rappresaglia economica russa (e cinese) potrebbe tramutare in tempesta perfetta. Insomma, la speranza di una ricompensa sui Btp rischia di pagarla l’economia reale. Come sta già facendo.
E il fatto che gli Usa - come riportato dal Wall Street Journal - stiano inviando in Ucraina vecchi sistemi missilistici sovietici (fra cui gli SA-8) acquistati segretamente a metà degli anni Novanta e da allora stoccati in una base dell’Alabama, al fine di contrastare l’aviazione russa rischia di portare il livello dell’escalation militare al punto di non ritorno: Mosca ha infatti definito bersaglio legittimo del suo esercito ogni rifornimento occidentale di armamenti a Kiev. Se quel carico partito su C-17 Globemaster III dalla base di Huntsville dovesse davvero transitare dalla Polonia o comunque da suolo europeo, il rischio di incidente non controllato salirebbe. Molto. E dalla sindrome Kissinger potremmo essere costretti a spostare i nostri timori verso la sindrome Sarajevo. E da una posizione politica di prima linea.
© RIPRODUZIONE RISERVATA