Non esiste obbligo di controllo all’ingresso, solo a campione e affidato ai titolari. Eppure l’applicazione è rigidissima. Un enorme esperimento di Stanford di delega del potere. E criminalizzazione
Quantomeno a Milano, l’obbligo di green pass per accadere ai negozi cosiddetti non merceologicamente essenziali è rispettato in maniera rigidissima. Almeno per ora. E la cosa deve stupire. Non perché sia nota la propensione tutta italiana verso l’approccio fatta la legge, trovato l’inganno, bensì perché quell’obbligo - inteso come tale - non esiste.
Anzi, per essere più precisi, non è mai esistito. A farlo saltare ex ante, nel breve lasso di tempo fra decretazione ed entrata in vigore lo scorso 1 febbraio, la vibrata protesta dei tabaccai, riscossori di Stato e come tali depositari un potere contrattuale di negoziazione più alto di altre categorie. Ed ecco che, infatti, carta canta. Basta consultare le FAQ applicative delle nuove norme e si scopre che i titolari delle attività commerciali che non vendono beni di prima necessità, e quindi non solo i tabaccai, non devono effettuare necessariamente i controlli sul possesso del green pass base all’ingresso, ma possono svolgerli a campione successivamente all’ingresso della clientela nei locali.
Tradotto, ci siamo resi conto delle saracinesche abbassate e dei locali vuoti, ci siamo resi conto di città commercialmente e turisticamente morte come durante un vero lockdown. E abbiamo provveduto per via burocratica, però. Perché non è carino sbandierare ai quattro venti di aver preso l’ennesima cantonata. Quindi, la presenza di addetti all’ingresso dei negozi che vincolano la vostra possibilità di acquistare (o curiosare) al possesso del green pass è totalmente ascrivibile alla volontà dei titolari. Non a caso, non sono previsti controlli di polizia, carabinieri, finanza o polizia locale. Delegati ai negozianti e a campione all’interno dell’esercizio. E non all’ingresso.
Insomma, se fate parte dell’esercito di cittadini sprovvisti, sappiate che è solo lo zelo del negoziante a vietarvi l’ingresso. E non lo Stato. Il quale, però, nel frattempo è riuscito a imporre un tale clima di pervasività in controlli e restrizioni da poter tranquillamente delegare al privato cittadino una sua prerogativa, ottenendo oltretutto una risposta assolutamente confortante a livello di efficienza. Eppure, quotidianamente la associazioni di categoria lamentano crolli delle vendite, persino in piena stagione dei saldi. Perché allora quell’applicazione pedissequa e non richiesta, quando comunque all’interno dei negozi sono obbligatori mascherina, distanziamento, numero chiuso e igienizzazione ormai da mesi e mesi?
Paura. L’alleato principale di ogni potere. Buono o cattivo che sia, con buona pace dell’anima di Fabrizio De André. E tutto questo ha un nome e un presupposto scientifico: il cosiddetto esperimento carcerario di Stanford, meglio conosciuto fra i sociologi come effetto Lucifero. Sperimentato nel 1971 dal professor Philip Zambardo e dalla sua equipe, il fenomeno aveva come base la ricerca di risposta a una domanda: Cosa spinge le persone a essere cattive? A tal fine furono selezionati 24 studenti universitari, poiché ritenuti soggetti equilibrati e con una cultura superiore alla media e rinchiusi in un sotterraneo dell’università californiana di Stanford, allestito come una prigione. Attraverso il lancio della monetina, gli studenti si divisero in due gruppi: carcerati e carcerieri.
Tramite telecamere nascoste, l’equipe seguì i processi di impersonificazione nel ruolo. Il risultato? L’effetto Lucifero, appunto. In principio l’esperimento sarebbe dovuto durare 14 giorni ma professor Zimbardo lo interruppe durante la prima settimana, quando rilasciò cinque detenuti a causa di un forte crollo emotivo e poiché le guardie avevano iniziato a mostrare eccessivi episodi di violenza, rasentando a tratti il sadismo. Di fatto, abuso di potere. E infatti, l’esperimento di Stanford sta alla base di quella branca della psicologia sociale che ritiene la causa della trasformazione delle persone da buone a cattive insita nel sistema in cui si trovano e nella loro relazione con il potere.
E in quale contesto si trovano gli esercenti? Mesi e mesi di crisi, in cui a lockdown totale sono seguiti - per chi non è fallito - trimestri di controlli a tappeto, restrizioni, multe, chiusure e sospensioni da parte di quello stesso Stato che, però, diviene anche soggetto da tenersi buono, poiché erogatore dei ristori. Dipendenza, insomma. Unita all’istinto di sopravvivenza. Detto fatto, oggi - nonostante lo Stato stesso offra una scappatoia legale a quell’obbligo di green pass - un’intera categoria già nuovamente in crisi pare ben disposta a mostrarsi più realista del Re, applicando paradossalmente la versione non emendata del decreto. Pur rimettendoci, potenzialmente e nei fatti, a livello commerciale.
La ragione? Ho fatto otto telefonate ad altrettanti punti vendita di Milano, quattro grandi catene e quattro piccoli negozi. La prima categoria ha risposto alla mia domanda sulla necessità di green pass in maniera immediata e senza possibilità di mediazione: sì, c’è obbligo e controllo all’ingresso. La seconda categoria, invece, messa di fronte all’obiezione relativa alla nuova versione della restrizione, ha ammesso che sia così ma ha anche fatto capire quale fosse la vera ragione di una tale pedissequa ed elvetica applicazione del divieto: se gli altri clienti vedono che lei entra senza controllo e senza green pass, potrebbero aver da ridire. Arrabbiarsi. E non tornare più.
E’ una questione di mero calcolo, costo/beneficio: i non possessori di green pass a vario titolo e per varie ragioni - ungi dall’essere cittadini e contribuenti come gli altri - sono pochi, al massimo il 10% della popolazione. Chi è vaccinato, quindi in possesso del green pass base richiesto per negozi e mezzi pubblici, rappresenta invece la maggioranza. La quale, debitamente caricata dallo Stato di autostima salvifica e sacrificale attraverso il riconoscimento a reti unificate dell’atto vaccinale, ora odia, marginalizza, criminalizza e vuole rendere la vita difficile a chi è diverso. D’altronde, quando a confermarlo è stato il vice-ministro della Salute in persona nel corso di un talk-show, c’è poco da evocare complottismi, distopie o fantapolitiche.
L’intero sistema si regge ormai su paura, delazione e segmentazione della società in soggetti utili e soggetti dannosi. Questo è servito a stroncare la pandemia? No e Omicron l’ha dimostrato plasticamente, da più di un punto di vista. In compenso, esattamente come gli studenti-carcerieri di Stanford, la maggioranza degli italiani potrebbe cadere vittima di questo stesso riflesso condizionato anche quando, un domani non troppo lontano, si comincerà magari a spostare l’attenzione dal pericolo del no-vax untore a quello del pensionato con assegno legato al vecchio sistema retributivo, alla vedova con una reversibilità troppo alta, a eccessivi assegni di accompagnamento o invalidità. O, sempre magari, concludere il lavoro iniziato con il Jobs Act nel livellamento dei diritti minimi nel mondo del lavoro.
Perché l’Europa ci chiederà sostenibilità dei conti e riduzione del debito, ci chiederà lacrime e sangue. Altrimenti, addio ai mitologici 175 miliardi rimanenti dai 209 stanziati nel Recovery Fund. E l’abbrivio con cui Mario Draghi ha iniziato il secondo tempo del suo governo, quello post-elezione del Presidente della Repubblica, sembra già offrire qualche indizio al riguardo. Per il resto, ci penseranno la fine del Pepp della Bce e lo spread già in fibrillazione: il concambio dei titoli in detenzione fra Eurotower e MES avrà condizionalità pesanti e richiederà garanzie altrettanto solide. Occorre quindi un Paese di disciplinati soldatini, forgiati alla dura scuola della pandemia e della paura.
Sarà per questo che, ad esempio, il Parlamento non ha ancora ratificato la riforma proprio del Meccanismo di Stabilità Europeo, incassando il primo rimbrotto - ancorché amichevole - dell’Ue? Cosa c’è all’interno, magari nascosto fra le postille a piè di pagina come in certe polizze assicurative? Meglio rifletterci, finché c’è ancora (poco) tempo per fermare la deriva.
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