I Ceo Usa parlano di “stakeholder” ma pensano solo agli “shareholder"

Glauco Maggi

21 Febbraio 2022 - 06:18

Il capitalismo degli azionisti, ossia di coloro che possiedono le azioni e sono interessati nella crescita del valore economico, sta cedendo il passo al nuovo stakeholder capitaism per indicare la responsabilità sociale delle aziende.

I Ceo Usa parlano di “stakeholder” ma pensano solo agli “shareholder

Le società per azioni - e in prima fila quelle quotate - sono la struttura legale/finanziaria del capitalismo. In America c’era fino a qualche tempo fa un unico termine per definire il sistema: “shareholder capitalism”, capitalismo degli azionisti. “Share“ significa infatti quota, azione, parte, mentre “holder” sta per “chi la possiede, ossia il detentore”. Gli azionisti sono i padroni della società. Il solo interesse di un azionista è nella crescita del valore economico delle azioni in cui investe: la plusvalenza della quotazione e i dividendi distribuiti basati sui profitti.

Da qualche tempo, nel dibattito culturale/finanziario e politico/sociale ha fatto irruzione un altro termine, “stakeholder capitalism”. È usato, in contrasto con “shareholder capitalism”, per indicare una supposta responsabilità sociale delle società per azioni di cui sopra. “Stakeholder” è infatti un soggetto, al di dentro ma anche al di fuori della comunità dell’azienda, con un interesse personale che può essere diverso da quello dell’azionista: per esempio, i dipendenti che vi lavorano, i fornitori e i terzisti, ma anche gli abitanti delle aree in cui sono collocate le fabbriche e le filiali, i gruppi di attivisti della zona impegnati nella difesa dell’ambiente urbanistico, naturale, artistico attorno alle sedi della ditta, e perfino, nel caso di imprese globali, le fondazioni e gli enti impegnati a salvare il pianeta.

La strategia dedicata a propugnare questa nuova dimensione olistica e missionaria di imprese commerciali nate per fare prodotti e servizi e trarne profitti economici suona nobilissima, lastricata dalle migliori intenzioni. In realtà è un tentativo - patetico nella sceneggiata del neo-buonismo woke - di “fare la rivoluzione” senza sventolare la classica bandiera. Non è più l’esproprio dei mezzi di produzione, quello annunciato apertis verbis dalle avanguardie che lo rivendicavano in nome del marxismo e per conto delle masse proletarie. È, modernamente, un obiettivo sofisticato, alato, applaudito dai media e guidato dagli stessi Ceo. Sì, sono proprio i chief executive officers - gli amministratori delegati - i leader di questa strisciante rivoluzione lessicale, da share a stake.

Tanto improbabili sono, questi Ceo, che a smascherarli è stato il primo studio accademico impegnato nella verifica concreta del loro credo nello “stakeholder capitalism”.

Tre economisti della Harvard Law School, Lucian Bebchuck, Kobi Kastiel e Roberto Tallarita, hanno fatto una analisi dei 116 takeover (le acquisizioni di una quota di controllo in una società da parte di nuovi padroni) avvenuti dall’aprile 2020 a fine 2021. La ricerca - focalizzata sulle società oltre il miliardo di dollari - ha puntato a verificare nel concreto la filosofia pro-stakeholder propagandata con enfasi dalla Business Roundtable, l’organizzazione che raccoglie la crema degli amministratori delle corporation americane, e dal World Economic Forum di Davos.

Tra i nomi più in vista, ormai star del “nuovo” capitalismo, ci sono i Ceo di BlackRock, Larry Fink, e di JPMorgan Chase, Jamie Dimon. Fink ha scritto una lettera ai suoi colleghi Ceo in gennaio per incoraggiarli a seguirlo, e ha inaugurato il “BlackRock Center for Stakeholder Capitalism".

Ma tanto fervore, alla prova del comportamento sul campo dei woke Ceo analizzato dai tre economisti, si riduce a zero, o al massimo allo 0,4%, a vantaggio degli stakeholder. Infatti i Ceo uscenti hanno inserito nei contratti di vendita minime misure non vincolanti, a favore dei dipendenti, per un ammontare medio complessivo potenziale irrilevante: la stima, appunto, è dello 0,4% del guadagno di borsa ottenuto dagli azionisti grazie alla trattativa del takeover.

Analizziamo ora l’aspetto che dovrebbe essere il più rilevante, per i Ceo che pensano davvero di badare ai dipendenti-stakeholder come affermano, ossia la sorte dei lavoratori della ditta oggetto della acquisizione. Dall’esame sui 116 casi emerge che in nessuno di essi, sul contratto firmato per la cessione, i Ceo “venditori” hanno incluso clausole legalmente vincolanti di protezione sul numero dei posti lavoro, sul mantenimento dei livelli retributivi, o su eventuali riparazioni economiche per chi sarà lasciato a casa. Invece, i Ceo uscenti sono stati brillanti nell’ottenere un premio medio, per gli azionisti-shareholder, pari al 34% dell’incremento sul prezzo di Borsa che si è materializzato con l’operazione. E i Ceo, si sa, sono solitamente anche detentori di ricchi pacchetti azionari.

Ma non è tutto. Oltre al valore accresciuto delle azioni mantenute dopo le operazioni, il 98% dei contratti di cessione prevede benefici di varia natura per gli executives e circa il 50% riconosce ulteriori migliorie nei compensi del top management. Alla faccia dei dipendenti, gli “stakeholder” più vicini e più ovvi, per non parlare del quartiere o del pianeta, e di tutte le altre nobili cause di contorno.

In pratica, gli amministratori delegati hanno condotto e chiuso le 116 trattative avendo soltanto in mente gli interessi degli azionisti. Nulla di male, è il loro lavoro in effetti. Ma sono loro che si riempiono la bocca di ‘stakeholder capitalism’, e in un momento in cui c’è la torta ‘capitalista’ da spartire, e loro hanno un certo potere nella trattativa con i compratori, si ‘dimenticano’ dei lavoratori.

Tutto ciò è la dimostrazione delle due aberrazioni dello ‘stakeholder capitalism’. Quella di sostanza è che tradisce la fondamentale ragione di esistere di una S.p.a., cioè il produrre utili per remunerare gli azionisti: drena risorse economiche e distrae i dirigenti dal loro core business aziendale, indirizzandoli ad assecondare una agenda politica/sociale. Di per sé, magari, questa agenda può pure essere legittima, ma il definirla e il perseguirla è compito dei rappresentanti politici eletti. Non di illuminati Ceo che si autoproclamano avanguardie sociali. L’altra aberrazione è un corollario, forse anche peggiore: i Ceo woke che vogliono dare delle loro aziende l’immagine di enti di beneficenza della società, dal quartiere al mondo intero, spesso fanno solo retorica, a cavallo tra l’ipocrisia e la campagna pubblicitaria.

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