Si può davvero creare una società migliore lavorando meno ore a settimana e includendo tutti nel processo produttivo?
L’adagio «lavorare meno, lavorare tutti» è ciclicamente di moda da decenni. Recentemente è stato riportato in auge dalle dichiarazioni della neo-presidente finlandese Sanna Marin secondo cui la settimana lavorativa andrebbe ridotta a 4 giorni da 6 ore ciascuno. Rispetto alle 40 ore settimanali italiane si tratterebbe di una diminuzione della settimana lavorativa del 40%.
Negli stessi termini ha parlato Marco Rizzo nella trasmissione settimanale sul canale youtube di Money.it, «l’altro punto di vista», ogni mercoledì in diretta alle 12.
Secondo Rizzo le ore lavorate, a causa dell’avanzamento tecnologico, saranno sempre meno e quindi per avere piena occupazione servirà... lavorare meno e lavorare tutti. A parità di salario, si intende.
Lavorare meno e lavorare tutti: dove si infrange il sogno
Se è tutto così logico e lineare come mai non stiamo andando in questa direzione? La motivazione essenziale è una: il «capitale umano», i lavoratori, insomma le persone non sono una risorsa omogenea e intercambiabile se non per una varietà molto ristretta di mansioni.
Se è vero che il progresso tecnologico porterà una riduzione sempre maggiore delle ore-lavoro umane necessarie all’economia (vale per la produzione industriale ma anche per i lavori di concetto, basti pensare a quante ore lavoro sono rese superflue dall’informatica) d’altro canto le mansioni per cui sarà ancora fondamentale il lavoro umano saranno quelle a più elevata specializzazione. E’ qui che crolla tutto.
Poniamo l’esempio di una professione con cui tutti abbiamo a che far nel corso della vita: il medico. Se aumentiamo il numero di medici e riduciamo le ore lavorate avremo lo stesso livello di servizio per i pazienti? Non impossibile ma molto difficile: già oggi i medici eccellenti sono totalmente assorbiti dalla loro professione, l’eccellenza del resto si costruisce con gli anni di studio, esperienza e pratica il tutto accompagnato da talento e dedizione.
E’ possibile ottenere medici eccellenti richiedendo a ciascuno poco lavoro o piuttosto in uno scenario del genere si avrebbero sì più medici ma mediamente meno esperti e preparati?
Lo stesso discorso può essere fatto per qualsiasi professione utile nel mondo futuro e che richieda specializzazione e quindi anni di studio, impegno e pratica: lo sviluppatore software, l’ingegnere, il manager.
La società del lavorare meno
Posto che l’evoluzione tecnologica e sociale ci sta portando ad avere meno posti di lavoro necessari ma a più alta specializzazione, disegnare la società del futuro è un compito non certo facile che in ogni caso richiederà per qualcuno dei compromessi.
Come abbiamo già visto non è pensabile dividere tra tutti i lavori veramente necessari, a chi dovrà svolgerli sarà richiesto impegno e sacrificio negli anni ben oltre il monte ore e d’altro canto va da sé che chi sceglierà questo tipo di percorso ne dovrà avere riconoscimento economico e sociale.
Se il riconoscimento economico è piuttosto scontato, già oggi le professioni ad alta specializzazione pagano di più, c’è da chiedersi quale sarà la percezione del lavoro in una società in cui questo è richiesto a tutti come parte del loro dovere di cittadini e non come diritto in quanto tali.
Nel momento in cui si lavorasse tutti, infatti, la percezione del lavoro come diritto andrebbe a morire e rimarrebbe solo la componente dovere. A ben pensarci questa situazione assomiglia molto al funzionamento teorico del reddito di cittadinanza in cui i beneficiari sono tenuti ad un certo monte ore di lavoro socialmente utile.
Già ad oggi l’applicazione di questo sistema è una farsa con gli enti che a mesi dall’avvio della misura non sono ancora in grado nella maggior parte dei casi di usare queste ore lavoro anche perché, in buona parte, non saprebbero come farlo senza andare a sovrapporsi alle mansioni di chi un lavoro in piena regola ce l’ha già e per il quale i beneficiari RDC rappresentano potenzialmente una seria minaccia di dumping.
Le poche esperienze in merito ci dicono già ora che i percettori di RDC non hanno in media la minima voglia di dare il proprio contributo e chi li dovrebbe impiegare non ha grande interesse a farlo in quanto sono risorse difficili da gestire, malviste da chi il lavoro è già pagato per farlo o comunque da chi ambierebbe a farlo con regolare contratto o appalto e non garantiscono nessuno standard minimo nell’esecuzione del lavoro. Del resto, se anche il lavoro fosse fatto male, chi lo contesterebbe e che misure potrebbe applicare? Togliere il già misero RDC? La situazione inizierebbe a rasentare i campi di prigionia di altri luoghi e altre epoche...
Poniamo ora che un modello simile di società si imponga, al netto del più che probabile crollo dei servizi essenziali, che tipo di percezione ci sarebbe da parte della maggioranza che lavora nel contesto del meno lavoro per tutti verso chi si impegnasse nel percorso delle professioni specializzate? Devozione e riconoscenza o piuttosto invidia del più alto tenore di vita e disprezzo?
A meno che non si instauri un cambiamento culturale per cui la dignità sociale del lavoro torni ad essere un valore fondante della società e per la quale il lavoro sia la via maestra di realizzazione personale piuttosto che un diritto/dovere svuotato di significato che non sia quello di avere i mezzi basilari di sussistenza non avremo mai una società in cui lavoro e reddito possano essere divisi più equamente per il semplice fatto che l’attitudine e la capacità a lavorare non sono divisi equamente.
A ben vedere se quel cambiamento culturale si innestasse già oggi, se insomma il cittadino medio tornasse a vedersi più come lavoratore che come consumatore, ci sarebbe già spazio per l’esecuzione automatica del piano di distribuzione di oneri e redditi: se ciascuno fosse in grado di offrire alla società servizi utili e richiesti erogati al livello a cui oggi si pretende di riceverli come consumatori acquisirebbe un potere contrattuale forte rispetto alla controparte e potrebbe permettersi di chiedere abbastanza per relativamente poche ore di lavoro.
Insomma si aprirebbero spazi di contrattazione, personale ma anche collettiva, che potrebbero far tornare in equilibrio le forze di negoziazione tra domanda e offerta.
Gran parte delle opportunità di lavoro a bassa specializzazione, per il futuro, sono e saranno sempre più nei servizi alla persona.
Significa che i giovani hanno e avranno opportunità di dare il loro contributo alla società assistendo famiglie e anziani nella loro quotidianità. Qual è oggi lo spirito verso questo tipo di attività?
E’ errato dire che oggi, a dispetto dell’alto livello di disoccupazione nel nostro paese, questo tipo di mansioni è del tutto snobbato dai ragazzi italiani e coperto da immigrati che spesso arrivano a guadagnare da subito più di un giovane italiano incastrato nel cliché degli anni di studio inutili seguiti da lavoro precario (ma assolutamente di concetto e utile più al proprio ego che alla società). E si badi bene, chi copre queste mansioni oggi offre in media tutt’altro che un servizio di eccellenza.
Ecco, nella società teorizzata del meno lavoro ma per tutti, a chi toccheranno queste mansioni necessarie per una questione puramente demografica ma considerate ignobili dalla società? Si deciderà a sorte a chi toccano 24 ore settimanali di assistenza coatta agli anziani oppure lo farà chi vorrà farlo? E in questo secondo caso è giusto che il compenso sia lo stesso di chi farà 24 ore di rilassato data entry in un ufficio pubblico? E in ogni caso gli anziani saranno assistiti decentemente e i dati inseriti in quantità congrua e senza errori?
Guardando alla società odierna, sembrerebbe di sognare. La verità è che il problema dell’occupabilità in una società in cui i posti di lavoro tradizionali vanno a scarseggiare è in mano alla responsabilità di ciascuno circa se stesso e il proprio progetto di vita (le persone costruiscono ancora progetti di vita? Pensano mai alla vecchiaia da giovani? Un tempo si faceva...), sapendo che il mondo va verso una granularità per cui i servizi one-to-one alla persona saranno il bacino di offerta di lavoro a cui attingere e che questi servizi andranno erogati al livello a cui si vorrà fruirne più avanti nella vita.
In parallelo continueranno ad esistere il lavoro presso aziende a il lavoro pubblico (sanità, servizi di base, cura delle infrastrutture, ricerca), saranno però, se si vuole che la macchina funzioni, percorsi di élite che richiederanno più sforzo e investimenti in formazione e più impegno nel corso della carriera. Dovranno per forza di cose essere percorsi competitivi e spietati nel decidere chi può farne parte e chi no, per il bene della società nel suo complesso.
In ogni caso la transizione non sarà indolore e ci saranno degli sconfitti in coloro che non sapranno adattare il proprio piano di vita al contesto in cui si vive come ce ne sono già oggi.
Certamente a livello di governo già oggi si potrebbe fare di più per accompagnare questo percorso in modo ordinato piuttosto che lasciarlo in mano alla gig economy pura.
I passaggi da compiere, a mio avviso, sono i seguenti:
- Già da subito incentivare il settore dei servizi alla persona (dove comunque l’economia sommersa impera) defiscalizzando il reddito che ne deriva e riconoscendo contributi pensionistici figurativi a chi si impegna in questa attività. In aggiunta, se possibile, mettere a disposizione delle famiglie fondi ad hoc per pagare questo tipo di prestazioni. In questo modo si incentiverà l’emersione del settore già esistente e l’ingresso dei giovani oggi disoccupati nel settore che ha più probabilità di occuparli nella vita.
- Tornare a forti piani di investimento pubblico sulle infrastrutture, altro elemento di cui c’è obiettivamente bisogno, includendo nei piani a medio e lungo termine la manutenzione in modo da creare altri posti di lavoro sicuri e utili alla società.
- Tornare a fare formazione nelle scuole sui diritti e doveri sociali, totalmente abbandonati negli ultimi decenni a favore della promozione dei diritti civili. Si può benissimo affrontare la formazione delle nuove generazioni coprendo tutti e due gli ambiti.
- Rendere il sistema formativo orientato alla carriera più selettivo e impegnativo. Separare chiaramente i percorsi universitari votati alla carriera da quelli utili alla formazione della persona, mantenendo comunque l’accessibilità universale alla formazione universitaria.
- Nel tempo, introdurre forme di sostegno minimo per chi proprio non vorrà lavorare, il più possibile in forma di servizi (abitazione, utenze di base, buoni validi per sanità, trasporti pubblici, accesso gratuito alla formazione) minimizzando il contributo economico puro. Per avere soldi oltre le necessità di base si dovrà essere incentivati/costretti a passare dal lavoro, fosse pure da circuiti di gig economy.
I punti appena esposti non sono forse, nella situazione attuale di avanzo primario dei bilanci pubblici per questioni più religiose che razionali, meno utopistici che il molto più semplice (e populista per davvero) slogan del «lavorare meno, lavorare tutti»?
Non siamo scesi dalle liane che da poche migliaia di anni e chi viene al mondo oggi rischia di scambiare per ambiente naturale, quindi dato e disponibile, ciò che in realtà è frutto di una complessa organizzazione sociale. Questo include tanto i servizi internet quanto la banale disponibilità di un’ampia scelta di beni acquistabili nel supermercato vicino casa.
Non è affatto scontato che il pane fresco piuttosto che il latte siano lì acquistabili a basso costo ogni mattina a un prezzo accessibile, mentre pensiamo a come costruire una società migliore cerchiamo di non compromettere ciò che di buono e funzionale ha la società imperfetta che abbiamo già.
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