Dietro lo stop tra MEF e Unicredit, la partita parallela. Con assist a orologeria di Standard&Poor’s e il bilaterale Draghi-Macron (un ruolo per AXA?). La Lega ora ingoierà la riforma delle pensioni?
Un aforismo tanto noto quanto di dubbia attribuzione recita che un galantuomo non lascia mai una donna, crea i presupposti per farsi lasciare. Nella vicenda MPS, Unicredit ha seguito questa filosofia di bon-ton. Ha alzato a dismisura l’asticella delle richieste nei confronti del Tesoro, primo ed emergenziale azionista della banca senese ed è riuscita a far consumare lo strappo.
Questa, almeno, la versione ufficiale che alberga su tutti i media in queste ore, dopo che Reuters ha rilanciato il suo scoop: governo italiano e istituto di Piazza Gae Aulenti starebbero preparandosi ad annullare i negoziati sulla fusione dopo che gli sforzi per raggiungere accordo sul piano di ricapitalizzazione sono falliti. Il tutto, alla vigilia della deadline posta da Unicredit per giungere a un accordo di massima e fissata in mercoledì prossimo. Alla base della rottura, il pacchetto di ricapitalizzazione del valore di oltre 7 miliardi di euro giudicato dal MEF troppo punitivo per i contribuenti. Senza contare l’impasse sulle altre condizioni fissate a luglio, tra cui spiccavano la neutralità dell’operazione dal lato degli indicatori patrimoniali (il che equivale a una ricca dote per MPS, prima della cessione), il rispetto di un perimetro definito delle attività che sarebbero confluite nella fusione (mai ufficializzato nei dettagli) e infine un accrescimento degli utili per azione, post fusione.
Condizioni giudicate impossibili da raggiungere da parte dello Stato. Detto fatto, la corda volutamente tirata si sarebbe rotta. Esattamente come da pantomima originaria. Andrea Orcel, infatti, è uomo di banca troppo navigato per non sapere che quelle richieste capestro fossero inaccettabili per il MEF, soprattutto a fronte della tensione interna alla maggioranza di governo sul tema. Lega e M5S, infatti, da sempre spingono per l’opzione terzo polo, destinata a vedere MPS aggregarsi con istituti del territorio per creare appunto un nuovo soggetto che vada a rompere il duopolio Intesa-Unicredit e faccia da riferimento al mondo delle PMI più che dei trading desks. Senza scordare, poi, il ruolo di presidente del Cda che l’ex ministro PD, Pier Carlo Padoan, ricopre oggi in seno all’istituto bancario milanese.
Oltre a quelli esiziali di Mario Draghi e dello stesso Andrea Orcel nell’acquisizione suicida di Antonveneta da parte della banca di Rocca Salimbeni, a detta di molti il vero inizio della fine. C’era però un problema: l’Europa. La quale fissava nel 31 dicembre di quest’anno la data ultima di uscita dello Stato italiano dal capitale dell’istituto senese: insomma, serviva una cortina fumogena per garantirsi l’incidente controllato. Ed eccolo. E guarda caso, in pressoché contemporanea con lo scoop di Reuters rispetto alla rottura dei negoziati, giungeva il report di Standard&Poor’s sul rating dell’Italia, confermato a BBB ma con outlook portato da stabile a positivo. All’interno della nota, un capitoletto a parte era casualmente dedicato proprio a MPS. In questi termini: Un accordo (con altro istituto bancario, ndr) richiederebbe quasi certamente un significativo apporto di capitale da parte dello Stato italiano, rappresentando un potenziale rischio fiscale.
Il tutto in un contesto nazionale in cui il calo dei livelli dei prestiti in sofferenza, insieme alle misure di politica monetaria della Bce, anche nei confronti del settore bancario, ha sostenuto la trasmissione monetaria in Italia... Il governo italiano è favorevole a un ulteriore consolidamento nel settore finanziario. Anche Oltreoceano giudicavano negative e inaccettabili le condizioni poste da Unicredit. Con tempismo straordinario, occorre ammetterlo. Ma non basta ancora. Nelle stesse ore in cui le due notizie stavano scaldando i motori per divenire pubbliche, al Consiglio Europeo il presidente del Consiglio, Mario Draghi incontrava in un bilaterale il presidente francese, Emmanuel Macron.
Il tema ufficiale del faccia a faccia non è stato reso noto ma alla luce degli sviluppi delle ore a seguire, sorgono due sospetti. Primo, l’Italia a questo punto potrebbe chiedere all’Europa una deroga alla scadenza del 31 dicembre, al fine di studiare una soluzione alternativa che non penalizzi le casse statali e quindi i contribuenti. Oltre ai saldi dei conti pubblici. Al netto degli spiccioli, saltando l’ipotesi Unicredit, servirebbe un aumento di capitale da 3 miliardi per MPS. E la permanenza dello Stato nella proprietà ai livello attuali, quantomeno per un arco temporale minimo. Usciti di scena due falchi come Merkel e Weidmann, avere dalla propria parte un peso massimo come l’inquilino dell’Eliseo potrebbe risultare mossa vincente nei confronti della Commissione UE. Secondo, il ruolo della francese AXA, la quale già opera in seno a MPS sul fronte assicurativo e potrebbe quindi generare un plus di assets combinato da vendere al mercato, in caso si arrivasse davvero a un aumento di capitale che operi da volano, prodromico magari alla creazione del famoso terzo polo italiano.
Infine, ecco la geniale mossa politica. In questo modo, lo Stato ammanta del profilo di scelta per così dire sovranista quello che in realtà era un costoso fallimento annunciato. E programmato. MPS non viene svenduta, i posti di lavoro vengono per ora tutelati e si cercherà una soluzione tricolore che ne preservi i prestigio, evitando umilianti spezzatini in stile Lehman Brothers dopo il crack. Insomma, l’idea è quella di vendere l’accaduto come un no dello Stato e del governo al famelico ultimatum di Unicredit in versione Nomura.
Casualmente, proprio alla vigilia non solo della scadenza posta da Unicredit per tramutare le trattative in piano concreto ma anche della settimana clou per la riforma delle pensioni, capitolo di fondamentale importanza dell’agenda parallelo dell’esecutivo Draghi per onorare le promesse fatte all’Ue e alla base dell’elargizione dei fondi del Recovery Plan che finanzieranno il PNRR. A fronte di un colpaccio mediatico-comunicativo che un Matteo Salvini politicamente poco in salute potrà rivendicare presso i suoi elettori come successo del pressing leghista in seno all’esecutivo, l’ex Carroccio ingoierà giocoforza quota 102? Se andrà così, trattasi di capolavoro. Costosissimo e politicamente gattopardesco a livello di risiko bancario ed equilibri finanziari. Ma pur sempre un capolavoro.
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