La crisi ucraina sta rivelandosi una debacle per il ruolo internazionale dell’Italia, ora aggravata dal cedimento su SWIFT. La necessità di alleanza sul Patto di stabilità è già mutata in «ricatto»?
Sicuramente è stato un fraintendimento. Sicuramente Mario Draghi non aveva la minima intenzione di mostrare risentimento, quando ha sottolineato come la sua telefonata di ieri mattina al presidente ucraino Zelensky fosse rimasta senza risposta, poiché non raggiungibile.
Ma se esisteva al mondo un giorno in cui era fondamentale evitare misunderstanding diplomatici, quello era ieri. E quel tweet del numero uno di Kiev, piccato nel far notare come la prossima volta sposterà l’agenda di guerra per poter parlare con Draghi, assume un peso specifico enorme. Perché giunto a stretto giro di posta rispetto al disvelamento del motivo di quella indisponibilità: il presidente ucraino stava, di fatto, trattando un negoziato con Mosca, aprendo a colloqui diretti cui la Russia ha subito risposto positivamente. E che potrebbero portare a un’insperata fine delle ostilità su larga scala, evitando altri morti, feriti e sfollati. Non a caso, la Borsa ha rumorosamente festeggiato.
Bruttissimo fraintendimento, insomma. Soprattutto perché fino a non più tardi della scorsa settimana, Mario Draghi pareva l’uomo della Provvidenza per evitare uno sviluppo bellico della disputa. Invece, pare sia stato soltanto un parafulmine, un diversivo rispetto a piani già determinati. Niente sbandierata missione a Mosca. In compenso, la perdita totale della scena, occupata con ego ipertrofico da Emmanuel Macron, forte anche del suo ruolo di presidente di turno dell’Ue. Occorre essere onesti: se uno scavalcamento simile lo avesse subito qualsiasi altro premier, la stampa ne avrebbe quantomeno messo in discussione la credibilità internazionale. Mario Draghi, per ora, gode invece ancora di buoni rapporti con i media. Ma la luna di miele potrebbe terminare. Prima del previsto.
Perché la questione ucraina sempre oggi è andata ad accavallarsi con un altro successo diplomatico francese, apparentemente futile di fronte al dramma: la Uefa ha spostato la finale di Champions League da San Pietroburgo a Parigi. Un colpo da maestro, il vero bersaglio grosso. E il perché è presto detto: ottenendo quel trasferimento, Macron ha garantito al suo Paese un evento milionario e con copertura mediatica mondiale per sancire la fine dell’emergenza Covid, festeggiare in grande stile il ritorno alla normalità e, soprattutto, aprire la caccia grossa al turismo estivo. Il tutto alla luce di un allentamento delle restrizioni che in Francia è decisamente più ampio e già calendarizzato che nel nostro Paese. Anche in questo caso, nemmeno una lamentela.
Ma qualcosa stona. Perché dal 26 novembre scorso, data della firma del Patto del Quirinale, l’ex numero uno della Bce ha mostrato a più riprese un atteggiamento fin troppo accondiscendente verso il protagonismo d’Oltralpe. In molti, pur a mezza bocca, avanzano una spiegazione univoca: Mario Draghi sa di aver bisogno di un alleato di peso quando entrerà nel vivo la battaglia campale, quella della revisione del Patto di Stabilità. E lungi da poter fare sponda con la Bundesbank, l’unica opzione era quella di una corsia preferenziale con l’Eliseo che puntasse a fiaccare e sostituire lo storico asse renano. Ora, però, i rischi crescono. E lo mostrano queste due immagini,
fresche di ufficio studi della Bce. Alla vigilia del Board del 10 marzo, le proiezioni della Banca centrale rispetto a Pil e inflazione dell’eurozona parlano chiaro: il primo viene stimato in ribasso al 3,8%, tasso che sconta 40 punti base di drag riconducibile proprio alla dinamica dei prezzi. I quali per l’intero 2022, alla faccia della transitorietà, vengono ritenuti in grado di incidere per un totale di 140 punti base, tanto da spostare il ritorno al target del 2% solo nel 2024.
Insomma, il 2022 sarà un anno di sfide terribili per l’economia. E il secondo grafico mostra come proprio la Francia, finora abbastanza esente dai colpi più duri dell’inflazione, stia per entrare in traiettoria di una tempesta perfetta che riguarda tutte le voci principali del paniere, ovviamente con i costi energetici in testa. Persino i servizi, punta di diamante del rimbalzo d’Oltralpe del 2021, stanno per superare la soglia psicologica del 2% di aumento. Detto fatto, l’Eliseo non solo ha imposto un aumento massimo del 4% della bolletta energetica per le proprie PMI, di fatto razionando l’energia che EDF vendeva all’estero e destinandola al consumo interno ma ha anche dato vita all’accelerazione sulle riaperture e alla campagna di visibilità mediatico-diplomatica, portando a casa subito il colpaccio della finale di Champions del 28 maggio.
E l’Italia? Per ora ha incassato un’unica vittoria, destinata a non finire sui giornali. La mostra plasticamente questa tabella:
il sostegno della Francia ha garantito a Mario Draghi di ottenere che in sede Ue non si pensasse nemmeno lontanamente all’ipotesi di estromissione della Russia dal sistema SWIFT o ad altre misure sanzionatorie estreme per il sistema bancario. Da ieri, però, la musica pare cambiata e l’opzione drammaticamente tornata sul tavolo. Perché i numeri dell’esposizione di controparte dei nostri istituti verso Mosca parlano chiaro. E con il risiko bancario in atto e la grana MPS ancora da risolvere, tutto può permettersi il premier tranne che tremori in quel settore chiave. Non fosse altro per l’incertezza che grava rispetto alle detenzioni e agli acquisti di debito della Bce dopo il 31 marzo, una spada di Damocle che potrebbe presupporre la necessità di un eventuale ed emergenziale ricorso del Tesoro al vecchio doom loop interno, ipotesi che certo non vede le banche in questione impegnate in salti mortali di gioia alla prospettiva di caricare i propri bilanci di Btp.
Ed ecco che la telefonata di stamattina proprio fra Draghi e Zelensky, ripresa con grande clamore da tutti i media anche esteri, cambia tutto: l’Italia supporta ufficialmente l’estromissione della Russia da SWIFT. Ovvero, potenziale addio pagamenti per aziende italiane che fanno capo a 11 miliardi di export e 26 miliardi di interscambio commerciale. E qualche rogna in Borsa - quantomeno, reputazionale - per un sistema bancario esposto per 25 miliardi, il massimo nell’eurozona. Ma a qualcuno oltreconfine, questo potrebbe far comodo. Soprattutto se l’intenzione segreta è quella di scalare a prezzo di saldo. E con approccio ostile, pur sfoderando ufficialmente un sorriso da amico. Praticamente, game over e addio sogni di gloria del Pil al 6,5%.
Ma non basta. Ora, poi, si apre la partita del MES, la cui ratifica sta tramutandosi con il passare delle ore in una vera e propria bomba a orologeria politica in seno all’esecutivo italiano. Se il passaggio parlamentare appare ormai scontato, così come il ricorso alla fiducia per evitare guai, subito dopo potrebbe aprirsi una battaglia in sede europea che già vede la Bundesbank e il fronte rigorista intenzionati a chiedere la fine degli acquisti. O la loro prosecuzione per gli Stati che lo necessitassero ma a fronte di garanzie chiare e condizionalità stringenti.
E una volta ratificato il MES, l’Italia non potrebbe più sfuggire alle eventuali responsabilità che Bruxelles le imponesse. Da che parte starà Parigi, a quel punto? Il Patto del Quirinale sarà onorato o la tentazione di affondare la concorrenza manifatturiera italiana, a poche settimane dalle elezioni presidenziali, potrebbe portare Emmanuel Macron al grande voltafaccia? E il profilo sempre meno battagliero e protagonista di Mario Draghi, cosa ci dice? Forse che, fiutata l’aria di un quasi certo tradimento francese, abbia capito come sia giunta l’ora di gettare gradualmente la spugna e guadagnare in tempo l’uscita? Magari, utilizzando proprio un incidente controllato sul passaggio parlamentare di ratifica del MES. Magari, evitando la fiducia.
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