Da domani 31 imprenditori calzaturieri saranno nella capitale russa per chiudere contratti e salvare le proprie aziende, dipendenti al 70% da quel mercato. Di fronte al Pil, Roma volterà lo sguardo?
Volano parole grosse. E quando a evocare lo spettro della Terza guerra mondiale è un uomo di provata esperienza diplomatica come Serghei Lavrov, forse è il caso di cominciare a preoccuparsi. Soprattutto perché mentre il conflitto si espande in maniera asimmetrica alla Transnistria e in territorio russo pericolosamente vicino alla pipeline petrolifera di Druzhba, al vertice militare in corso a Ramstein, in Germania, Usa e alleati europei parlano chiaramente di aumento esponenziale degli armamenti a Kiev per vincere la guerra e indebolire strutturalmente la Russia.
Ma mentre il mondo pare intento a scandire il suo conto alla rovescia verso un apparente inconsapevole Armageddon, 31 imprenditori calzaturieri marchigiani sono in viaggio verso Mosca per partecipare alla principale fiera di settore che si aprirà domani, l’Obuv Mir Kozhi. Un viaggio degno dell’Odissea, perché il gruppo - in totale 48 espositori da tutta Italia - dovrà muoversi attraverso i territori che ancora consentono collegamenti con la capitale russa. Quindi, Dubai, poi Turchia e infine Serbia. Il tutto per cercare di salvare letteralmente le proprie aziende, fiori all’occhiello del comparto e dipendenti al 70% dal mercato russo.
Non a caso, la Regione Marche finanzia la missione e paga le spese relative agli stand, circa 8.000 euro per 16 metri quadrati. Una decisione presa in tempi non sospetti, quella di sostenere un comparto di eccellenza dell’economia territoriale e che, infatti, contemplava anche un finanziamento per chi avesse voluto recarsi alla Fiera di Kiev, chiaramente saltata a causa dei combattimenti. Ma non basta, perché a supporto dei 31 temerari in viaggio verso Mosca si è schierata anche l’associazione di categoria, Assocalzaturifici e la stessa Obuv Mir Kozhi è organizzata da Bologna Fiere. Insomma, una violazione dopo l’altra del regime sanzionatorio che il governo Draghi sta perseguendo in maniera a dir poco letterale rispetto ai desiderata della Nato.
Interpellato da Il Fatto Quotidiano, l’assessore regionale alle Attività produttive delle Marche, Mirco Carloni, ha difeso la scelta: La Regione Marche condanna la guerra in tutte le sue forme e continuerà a aiutare i profughi ucraini ma, vista la situazione, non si può girare dall’altra parte, lasciando sole le imprese marchigiane colpite dalla crisi. E la calzatura è il nostro fiore all’occhiello. Un fiore all’occhiello che senza le commesse e i relativi acconti che potrebbero arrivare dai contatti con i buyers presenti alla Fiera moscovita, potrebbe rapidamente appassire. Generando perdita di Pil e di posti di lavoro, ipotesi tutt’altro che piacevole stante i venti di recessione e stagflazione che spirano sempre più forti da Shanghai.
Ma c’è un problema: se questi imprenditori hanno potuto contare quantomeno sul buonsenso di un’istituzione regionale che ha garantito un finanziamento al loro viaggio da novelli Marco Polo del mocassino, quanti altri comparti stanno operando un conto alla rovescia - parallelo a quello verso un’escalation del conflitto su base mondiale - verso la data in cui dovranno giocoforza cominciare a licenziare, limitare la produzione, dar vita a processioni in banca per rinegoziare prestiti e fidi e, infine, chiudere bottega? Tanti. E tutti altrettanto strategici e di eccellenza quanto il calzaturiero marchigiano, famoso e apprezzatissimo in tutto il mondo.
Cosa farà il governo Draghi, presente a Ramstein con il ministro delle Difesa e pronto a emanare un terzo decreto interministeriale che contempli l’invio a Kiev anche di armamenti pesanti, nella fattispecie obici? Volterà ipocritamente lo sguardo dall’altra parte, lasciando che un’istituzione regionale de facto vìoli l’embargo contro l’economia russa, utilizzando soldi pubblici per finanziare attività imprenditoriali a Mosca? Oppure sacrificherà il Pil e qualche centinaio di posti di lavoro in nome della fedeltà atlantica? O, terza e più probabile ipotesi, fingerà direttamente che l’argomento non esista, trattandosi di un appuntamento settoriale che difficilmente terminerà sui media, a differenza delle esiziali polemiche sul 25 aprile?
Quelle persone che sono pronte a sobbarcarsi due giorni di viaggio, quando sarebbero bastate tre ore e mezza di volo diretto da Milano, non sono pericolosi fiancheggiatori di Putin. Probabilmente non lo amano nemmeno il presidente russo, Forse hanno persino simpatia per Zelensky. Ma devono lavorare. E far lavorare i loro dipendenti. Vendono scarpe, mentre il governo che vorrebbe limitarne l’attività attraverso le sanzioni vende armi. E ora persino obici. Certo, il volume d’affari e il livello di lobbysmo politico su cui può contare il settore del warfare non ha paragoni rispetto a chi produce stivaletti e tacchi 12, quindi non stupisce l’ipocrisia di fondo cui stiamo assistendo. Ma la domanda è: intendiamo rendere la guerra permanente e basare il nostro Pil sui missili, sacrificando la spina dorsale produttiva del Paese, quelle PMI che lottano ogni giorno per alzare la saracinesca? Se sì, va bene. Ma occorre dirlo.
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