Nonostante l’embargo, Teheran ha aumentato del 20% la sua produzione di greggio da inizio anno e vende clandestinamente alla Cina. Se gli Usa revocassero le sanzioni e si uscisse dal regime di grey market, addio rally del barile e super-ciclo su cui Wall Street è andata all-in. Ma se Israele punta a coinvolgere gli ayatollah a un mese dal voto presidenziale, il risiko passa dai colloqui sul nucleare in corso nella capitale austriaca
Riassumere la questione israelo-palestinese con un grafico è quasi blasfemo, ancor prima che riduttivo. Ma quanto sta accadendo sull’asse immaginario che collega il Consiglio di sicurezza dell’Onu con il tavolo negoziale sul nucleare del JCPOA a Vienna smaschera parecchi altarini e proxies sui tragici avvenimenti di Gaza. Schierando sul campo interessi geopolitici, dove invece si vorrebbero solo soldati e miliziani.
E questa prima immagine
Fonte: Bloomberg
mostra plasticamente il pump’n’dump sul prezzo del petrolio sostanziatosi nell’arco di mezz’ora nella capitale austriaca, protagonista l’inviato russo Mikhail Ulyanov. Il quale ha prima schiantato le valutazioni del barile, anticipando un accordo con l’Iran che sarebbe stato annunciato già domani e poi rispedito le quotazioni in area di sicurezza, chiarendo come sia ancora troppo presto per parlare di uno sviluppo nei colloqui, stante il permanere di questioni irrisolte. Dichiarazioni azzardate, forse frutto dell’entusiasmo diplomatico? Non a quel livello. E non da parte del negoziatore del Cremlino, decisamente parte in causa quando si parla di energia.
Il petrolio è la chiave di quanto sta accadendo in Medio Oriente e proprio la natura sotterranea di questo fil rouge rende inevitabili specchietti per le allodole come questi. Per inviare segnali. Più espliciti, invece, quelli partiti dal Palazzo di Vetro dell’Onu. E non è un caso che a recapitarli sia stata Pechino, il cui rappresentante ha attaccato duramente il veto statunitense alla risoluzione che chiedeva un’immediata fine delle violenze a Gaza, terza mossa ostruzionistica in una settimana da parte americana per bloccare la possibile e immediata instaurazione di un cessate il fuoco. La ragione, valida come spiegazione per l’atteggiamento di entrambe le parti, sta appunto tutta in questo altro grafico,
Fonte: Bloomberg
dal quale si evince quale sia la reale posta in palio. L’Iran sta allegramente bypassando le sanzioni imposte da Donald Trump e vendendo enormi quantitativi di petrolio proprio alla Cina: la quale li sta stoccando in nuovi siti, fra cui quello di Rizhao che potrebbe garantire 100 milioni di barili di capacità a Pechino solo quest’anno.
Operando di notte e o spegnendo il trasponder, Teheran esporta. Tanto. E la Cina, oltre a comprare, garantisce uno scudo politico a quelle violazioni. Finora, tutto passato sotto silenzio. Ma adesso qualcosa pare cambiato. E Israele, al fine di ottenere un duplice risultato interno, ha sfruttato al meglio gli interessi di una Wall Street andata all-in sulla scommessa di super-ciclo per le commodities e orientata verso un petrolio che veleggi in area 80-100 dollari di valutazione al barile. Primo risultato, infliggere un colpo durissimo ad Hamas e alla Jihad islamica, godendo della copertura politica degli Usa in sede Onu. Secondo, stroncare sul nascere proprio ogni possibile appeasement dell’amministrazione Biden verso l’Iran a Vienna, dopo le prime aperture della Casa Bianca al dialogo e un’ipotesi di ritiro delle sanzioni.
Nemmeno a dirlo, se Teheran si fosse liberata ufficialmente del giogo sanzionatorio statunitense, sarebbe tornata a inondare ufficialmente il mercato di greggio, schiacciando drasticamente al ribasso le quotazioni. E per quanto una parte del Partito Democratico prema perché la diplomazia statunitense metta un freno all’offensiva israeliana, il comparto bellico-industriale che di fatto controlla il Congresso a colpi di lobbysmo pare avere altri interessi. Coincidenti con quelli di Israele. E delle principali banche d’affari.
Fonte: Financial Times
Fonte: Financial Times
E la questione è tutt’altro che di fantapolitica, perché la stessa Bloomberg ha rivelato come Teheran stia già elaborando piani di produzione tali da garantire un output da 4 milioni di barili al giorno entro tre-sei mesi dall’allentamento ufficiale delle sanzioni.
Solo quest’anno e operando sul grey market, l’Iran ha aumentato la produzione del 20% raggiungendo i 2,4 milioni di barili al giorno. Un surplus per ora venduto clandestinamente alla Cina o utilizzato internamente ma pronto per tornare disponibile sul mercato. Di fatto, mandando all’aria la lunga e laboriosa mediazione in sede Opec per garantire un aumento delle valutazioni che faccia respirare i breakevens fiscali di Paesi come l’Arabia Saudita, altro storico nemico dell’Iran. Stando a dati in possesso dell’azienda di consulting specializzata nel Medio Oriente, FGE, l’Iran ha stoccato qualcosa come 60 milioni di barili di petrolio nel corso della finestra temporale delle sanzioni imposte dall’amministrazione Trump, 21 milioni dei quali (tra cui 11 di cosiddetto condensato) terminati negli hub di stoccaggio cinesi e pronti a essere venduti alle raffinerie.
E non è un caso che l’offensiva israeliana sia partita proprio ora, di fatto cercando di mettere in stand-by i colloqui fra Usa e Iran: il mese prossimo Teheran andrà al voto per la successione al presidente, Hassan Rouhani, il quale non può correre per un terzo mandato. E se l’ayatollah supremo, Ali Khamenei, ha sostenuto fin dall’inizio la riapertura del dialogo con Washington, la speranza di chi vuole sabotare una de-escalation fra i due Paesi punterebbe a esacerbare il clima tramite il proxy palestinese a tal punto da «garantirsi» un successore alla presidenza che sposi la linea dura verso gli Usa.
E le aspettative in tal senso sono state amplificate ieri dall’annuncio del veterano ministro per il Petrolio iraniano, Bijan Namdar Zanganeh, riguardo il suo ritiro dalle cariche governative in concomitanza con la fine del mandato di Rohani il prossimo agosto, quando il risultato delle elezioni del 18 giugno entrerà a regime. A capo dell’industria petrolifera del Paese dal 1997, Zanganeh è stato chiarissimo: Continuerò a fare politica ma non accetterei un ruolo nell’esecutivo nemmeno se mi offrissero la presidenza. Trovare un sostituto con altrettanta esperienza e diplomazia per gestire un ritorno all’operatività o un irrigidimento delle trattative, sia con gli Usa a Vienna che in sede Opec, non appare certo compito che richieda poche settimane.
E a far propendere per una battaglia nella battaglia ci pensa che questo ultimo grafico,
Fonte: Bloomberg
relativo al primo balzo del prezzo del petrolio a Wall Street nel momento in cui i fornitori della Colonial Pipeline hanno reso noto come il sistema di comunicazione dell’infrastruttura risultasse totalmente interrotto. A pochi giorni dal misterioso attacco hacker e dallo strano pagamento del riscatto. E, soprattutto, mentre il Senato Usa cominciava a discutere la proposta di investimento della Casa Bianca in ammodernamento e cyber-security della rete energetica nazionale in seno all’American Jobs Plan; per ora, 22 miliardi di dollari. Ma a fronte di un piano da 2 trilioni, quanto accaduto alla Colonial potrebbe spingere verso una mediazione al rialzo al Congresso.
Tutt’intorno, decine di danni collaterali destinati a finire nella contabilità arida di morti e feriti dei tg. A meno che non si voglia davvero credere di essere arrivati alle soglie della terza Intifada e di un’occupazione totale di Gaza solo per qualche caseggiato conteso fra arabi e coloni. E se per caso questo scenario dovesse saltare, superato davvero un accordo Usa-Iran a Vienna? Sarebbe paradossalmente peggio, perché significherebbe che la logica del costo/beneficio riterrebbe maggiormente sacrificabili i long sul comparto energetico che una potenziale rotation fuori dal tech. Tradotto, il Nasdaq richiede la pace con Teheran. Sintomo chiaro di quanto l’indice tecnologico sia a rischio di credit event.
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