Mentre Putin benediva il Donbass, la Cina sanzionava il warfare Usa. Guerra totale

Mauro Bottarelli

22 Febbraio 2022 - 06:00

Con tempismo e simbologia inequivocabili, Pechino ha colpito Lockheed e Raytheon per un contratto a Taiwan. L’asse nato prima delle Olimpiadi è entrato in azione. E l’Italia è sulla linea del fuoco

Mentre Putin benediva il Donbass, la Cina sanzionava il warfare Usa. Guerra totale

Se esiste una wildcard nella drammatica escalation delle ultime ore, questa è la reazione della Cina alla decisione russa di riconoscere – e, di fatto, annettere – il Donbass. E se il buongiorno si vede dal mattino, in sede Onu il blocco occidentale che già annuncia sanzioni contro Mosca rischia di dover fare i conti con il, suo peggior incubo: un asse Mosca-Pechino che va al di la della mera collaborazione storica.

Insomma, guerra totale. Perché quando le testimonianze oculari parlavano di colonne di blindati russi verso Donetsk, la Cina sanzionava due punte di diamante del complesso bellico-industriale Usa come Lockheed Martin e Raytheon Technologies per un contratto da 100 milioni autorizzato da Washington per la manutenzione del sistema missilistico di Taiwan. Qualcosa più di un chiaro segnale, un simbolo politico inequivocabile: l’Ucraina sta a Mosca come Taiwan a Pechino. Tutti avvisati. E il timing conferma. L’annuncio di provvedimenti contro le due aziende, infatti, risaliva all’ottobre del 2020, quando gli Usa approvarono una vendita di armi a Taipei per 1,8 miliardi di dollari di controvalore.

Oggi un contratto infinitamente meno oneroso e con mera finalità di revisione tecnica diviene pretesto per una mossa ufficiale. Proprio mentre il mondo si prepara a scatenare l’inferno sanzionatorio contro la Russia. E non basta. Se infatti non appare un caso che Vladimir Putin abbia atteso la tregua olimpica dei Giochi invernali di Pechino, proprio alla vigilia dell’inaugurazione degli stessi Xi Jinping e Vladimir Putin siglarono il loro patto di collaborazione e mutua assistenza in pompa magna. Troppe coincidenze per essere ritenute tali. E se Goldman Sachs ha immediatamente pubblicato una nota nella quale avvisa gli investitori della quasi certezza di un prezzo del petrolio che resterò sopra i 100 dollari al barile per un periodo prolungato di tempo, ecco che ora proprio la saldatura nei fatti dell’asse rosso rischia di operare da cavallo di Troia in seno ai rapporti transatlantici e Nato.

A nessuno, infatti, deve sfuggire un particolare: al netto di una sbandierata investitura di mediazione, già vanificata in maniera impietosa dall’iniziativa della Francia nella notte fra domenica e lunedì, l’unico telefono a non aver squillato nelle ore calde e concitate seguite al discorso di Vladimir Putin è stato quello di Mario Draghi. Il presidente russo avrebbe infatti anticipato la sua decisione a Parigi e Berlino, capitali con cui avrebbe parlato subito dopo anche Joe Biden in triangolazione con Londra. Roma ai margini. L’uscita di Palazzo Chigi rispetto al settore energetico che dovrebbe restare fuori dalle nuove sanzioni ha fatto arrabbiare Washington e scattare l’isolamento? I rapporti più che stretti della componente grillina con Pechino, alla luce del memorandum sulla Via della Seta firmato dal primo governo Conte, ha ulteriormente sobillato i sospetti degli alleati, stante il precipitare concreto della situazione?

Purtroppo quelle che fino a 24 ore fa potevano essere derubricate a mere elucubrazioni, oggi sono motivi di seria preoccupazione. Non fosse altro per la dipendenza totale dell’Italia dal gas importato e dai salti mortali già compiuti dal governo per trovare 8 miliardi per gli aiuti contro il caro-bollette senza operare nuovo scostamento di bilancio. Insomma, la crisi ucraina e il ruolo di jolly di lusso della Cina nello scacchiere rischiano di decretare la morte in culla delle speranze del governo Draghi di tramutare Roma nel baricentro degli equilibri europei post-Merkel. Un qualcosa che, al netto del contesto bellico, potrebbe pesantemente di riverberarsi anche in sede di decisioni economiche e monetarie. Leggi Bce e riforma del Patto di stabilità. E con lo spread oltre i 170 punti base, ora la bandiera rossa di pericolo appare in procinto di essere ufficialmente issata.

Se l’Europa deciderà per sanzioni dure contro la Russia, ivi compreso il comparto energetico come strumentalmente già chiedono gli Usa, l’Italia sarà giocoforza chiamata a gettare la maschera dell’ambiguità. Potenzialmente, un gioco lose-lose. Che potrebbe accelerare un processo di crisi sistemica che lo scenario di politica interna ormai non si preoccupa nemmeno più di nascondere, come evidenziato dal tentato blitz leghista sull’eliminazione del green pass in Commissione e dal netto no sempre di Matteo Salvini alla ratifica della riforma del Mes. Il fall-out della crisi ucraina rischia di contagiare direttamente anche Roma, oltre a offrire al mondo la prima uscita ufficiale di una nuova polarizzazione degli equilibri?

Siamo a un punto di snodo. Perché se saranno sanzioni al limite dell’embargo de facto, Mosca cederà del tutto alle lusinghe di Pechino. In primis, abbandonando il sistema di pagamento SWIFT prima di esserne espulsa ed entrando nella sfera di influenza del CIPS (Cross-border Inter-bank Payments System) cinese. Nemmeno a dirlo, un terremoto per l’interscambio commerciale globale. Siamo alle soglie della rivoluzione, il grande reset che doveva nascere dagli stravolgimenti imposti dal Covid sta invece per deflagrare all’unisono con le bombe del Donbass. Un decennio di ipocrita doppiopesismo globale verso Pechino sta vedendo i nodi arrivare al pettine. E l’Italia, purtroppo, rischia di rappresentare il più grande e più doloroso da sciogliere.

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