Riforme strutturali: cosa sono e perché l’UE le invoca sempre?

Daniele Morritti

12 Febbraio 2017 - 08:17

Le riforme strutturali riempiono le pagine dei giornali. Ma cosa sono realmente e perché l’Ue sembra non poterne fare a meno?

Riforme strutturali: cosa sono e perché l’UE le invoca sempre?

Fin dal 2009, anno dello scoppio della crisi economica in Europa, non vi è leader politico europeo o burocrate che alla prima occasione non richiami alla necessità, per i Paesi dell’eurozona, d’implementare le riforme strutturali.

Dopo otto anni di crisi irrisolta e altrettanti passati a saggiare i risvolti macabri delle riforme strutturali sorge spontaneo chiedersi: cosa sono, in definitiva, le riforme strutturali e perché, nonostante abbiano causato più problemi di quelli che intendevano risolvere, l’Ue nel suo complesso si ostini ancora a invocarne l’implementazione?

Le riforme strutturali toccano nel profondo la genetica di due capisaldi della vita politica e sociale:

  • Il mercato del lavoro e tutte le sue principali declinazioni;
  • Il ruolo del pubblico (Stato) negli affari economici.

Una volta sviluppati nel dettaglio questi due aspetti, si avrà prova di cosa sono le riforme strutturali. Per capire, invece, per quale motivo l’Ue invochi con così pressante insistenza l’implementazione delle riforme strutturali a livello nazionale, è necessario valutare nel merito il fattore che a quel livello ne impone il ricorso: l’euro.

Cosa sono le riforme strutturali?

Sebbene siano assurte agli onori della cronaca solo nell’ultimo decennio - grazie soprattutto all’enorme attenzione mediatica che hanno avuto i piani di salvataggio comminati a Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda - di riforme strutturali si parla almeno dalla seconda metà degli anni ’70.

Ne dà una definizione convincente Wolfgang Streeck, elaborata per sintetizzare le misure prese dai principali governi occidentali per fronte al cambio di rotta economica sancita dalla fine del regime di Bretton Woods e dalle crisi petrolifere degli anni ’70:

«Tra queste riforme si annoverano la riduzione dei diritti nella tutela del licenziamento, l’apertura di mercati del lavoro in zone centrali o periferiche con differenti diritti di tutela, l’autorizzazione o la promozione di forme di occupazione a bassa retribuzione, l’accettazione di un alto tasso di disoccupazione strutturale, la privatizzazione dei servizi pubblici nel quadro della riduzione del pubblico impiego, il decentramento e dove possibile la desindacalizzazione della contrattazione salariale».

Le Riforme strutturali, oggi come allora decantate come la panacea contro i mali che minacciano l’economia di ogni singolo Stato, altro non sono che il tentativo di «snellire e modernizzare», per dirla con Streeck, lo stato sociale, l’ultimo scoglio per la trasformazione degli Stati nazionali in aree di transito commerciale per le imprese transnazionali.

Il processo di riforma del mercato lavoro e la parziale dismissione del ruolo del pubblico negli affari economici si ascrive ad una dinamica mondiale che dagli ’70 non interessa solo i Paesi coinvolti nell’Integrazione europea. Gli stessi Paesi dell’America latina soggetti alle logiche del Washington consensus tra gli anni ’70 e ’80, vale a dire alla trasformazione dell’economia nazionale secondo schemi neoliberali (pretesa da Washington ed esercitata dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale), hanno avuto pieno accesso agli aiuti solo in cambio di profonde riforme strutturali.

Un modus operandi liturgicamente seguito dalla Troika nella crisi che ha coinvolto Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda. Gli aiuti economici elargiti dalla Troika - destinati a ripianare l’esposizione estera dei Paesi nei confronti dei creditori - erano (sono, nel caso della Grecia) subordinati alla messa in pratica di profonde riforme strutturali atte a depotenziare il fardello del sistema pubblico attraverso massicce privatizzazioni.

Prescrivere agli Stati riforme strutturali significa quindi trasmettere ai mercati il segnale che l’area di riferimento sta preparandosi a creare un ambiente adatto all’investimento estero. La riduzione della spesa pubblica, la privatizzazione dell’impresa di stato, la «flessibilizzazione» del lavoro attraverso i criteri che richiamava Streeck, sono espedienti per agevolare il passaggio da un’economia mista a una assoggettata completamente alle «logiche di mercato».

Va da sé, le riforme strutturali non risolvono alcun che. Anzi acuiscono, a dispetto del nome, i problemi strutturali dei Paesi che le adottano. Lo stesso Fondo monetario internazionale, sacerdote delle politiche neoliberali e primo spacciatore planetario di riforme strutturali ad alto costo sociale, ha di recente dichiarato che l’austerità fiscale (che le riforme causano) non funziona e che, per dirla con il celebre romanziere Jonathan Franzen, «sono stati commessi degli errori», per esempio, nel trattare il caso greco.

Riforme strutturali: perché l’Ue le invoca costantemente?

Recentemente, Mario Draghi ha dichiarato - e con lui, chiunque operi nel più ampio quadro dell’establishment europeo - che affinché l’euro funzioni è esiziale che i Paesi che l’hanno adotatto apportino profonde e durature riforme strutturali.

Va notato, tuttavia, che le riforme strutturali non sono un capriccio feticista della cricca eurocratica tantomeno il tentativo di punire chi non rispetta le regole, come spesso è stato detto nel dibattito.

Sono, come si diceva nel paragrafo precedente, lo strumento con il quale lo Stato (quindi il pubblico) si immola al privato e al mercato. Si obietterà: cosa c’entra questo con l’euro?

A partire dagli anni ’80 ha iniziato ad affermarsi in Europa un’idea secondo la quale gli Stati, specie quelli del sud (tra cui e soprattutto l’Italia), non avrebbero mai promosso la finanziarizzazione dell’economia in assenza di un vincolo esterno, il futuro euro, che imponesse loro disciplina fiscale e controllo sulle finanze pubbliche. In aggiunta a ciò, si credeva possibile che l’integrazione monetaria potesse condurre i Paesi europei direttamente alle pendici dell’Unione politica.

I firmatari del Trattato di Maastricht (1992) entravano quindi di diritto in un processo di dismissione del pubblico a favore del privato. Ancor prima che l’euro entrasse in vigore con la convergenza del 1999, erano già state varate, sotto l’egida e l’impulso di Bruxelles, profonde riforme del mercato del lavoro e la dismissione dell’industria di Stato in molti Paesi (il caso italiano dell’IRI è esemplare).

L’euro, la cui svalutazione o rivalutazione è preclusa agli Stati che l’hanno adottato (poiché la sua gestione è appannaggio esclusivo della Bce) impone che l’aggiustamento degli squilibri macroeconomici avvenga attraverso riforme strutturali - promosse e attuate dagli Stati. Queste consentono allo Stato di rimanere competitivo attraverso la svalutazione del lavoro e non attraverso quella del cambio nominale.

L’assenza del rischio di cambio connessa all’euro favorisce la finanziarizzazione dell’economia e le riforme strutturali diventano il biglietto da visita degli Stati. Uno Stato dell’eurozona che si rifiuti d’implementare le riforme strutturali perde di credibilità agli occhi del mercato causando forti tensioni sistemiche in tutta l’eurozona. Da qui l’insistenza, spesso sfociata in vera è propria ingerenza, da parte dell’Ue.

Rendere il fattore lavoro flessibile, istituire il pareggio di bilancio come colonna portante delle ideologie politiche nazionali, ridurre il deficit pubblico, contenere i debito pubblico anche quando questo non rappresenta un problema per la stabilità del Paese, sono tutte riforme strutturali pensate per rendere il Paese competitivo in regime economico, a misura di mercato, plasmato dall’euro.

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