Il consesso delle elites non ha mai azzeccato una previsione ma solo rincorso l’esistente. Non a caso, mentre sulle Alpi si discute, è fuga di massa dei dirigenti. Soprattutto quelli del comparto Esg
Un adagio del mondo dell’informazione recita che un fenomeno non esiste, finché non finisce sulla prima pagina dell’Economist. Insomma, il settimanale britannico rappresenta una certificazione ontologica, una sorta di simbolico pizzicotto editoriale che divide la finzione dalla realtà. Per il World Economic Forum di Davos, vale lo stesso principio. Qualsiasi cosa venga affermata in quell’assise, o finisca nel programma ufficiale, ottiene di default il crisma dell’ufficialità e dell’autorevolezza.
Poco importa che, in un caso come nell’altro, occorrerebbe cercare di anticipare i fenomeni e non prenderne meramente atto. E la prova dei fatti è impietosa, in tal senso: non esiste una sola conclusione cui sia giunto il Wef che abbia permesso di governare una dinamica prima che questa esplodesse.
In compenso, esattamente come per l’annuale meeting del Gruppo Bilberberg, attorno al consesso economico che si tiene nella cittadina svizzera si sono sviluppate vere e proprie teorie cospirative e leggende metropolitane. In primis, la costruzione a tavolino del cosiddetto Big Reset globale legato alla pandemia. Qualcosa, però, stona: se qualcuno volesse organizzare un complotto a livello di sovversione degli equilibri socio-economici globali, lo farebbe nel corso del convegno più mediaticamente esposto e reclamizzato al mondo?
Davos non è niente altro che un enorme amplificatore di luoghi comuni e, soprattutto, la fonte battesimale di ogni strampalata ossessione che il sistema si trova costretto a sposare/propagandare per perpetuarsi. Ed ecco, quindi, subentrare il lato social: ogni battaglia che diviene argomento di agenda, magicamente viene mutuata dai media e trasformata nell’emergenza del momento. Sia essa il clima, il gender, l’Ucraina. A Davos nessuno si preoccupa di governare il caos, né tantomeno di sedarlo: semplicemente, si cerca di trarne giovamento a livello di profitti privati e di sistema, ammantando l’operazione di tratti apparentemente salvifici per il destino del mondo. Quanto è credibile la lotta ai cambiamenti climatici in un consesso dove si registra il record mondiale di atterraggio di jet privati? O quella alla diseguaglianza? O per il diritto universale alla salute?
Davos è il Rotary del capitalismo parassitario e manipolatorio. Non a caso, in perfetta contemporanea con l’edizione di quest’anno, dove realmente si lavora e si fanno i conti con le cifre della realtà, un mezzo terremoto mostra plasticamente come quell’élite non abbia minimamente il controllo della situazione. Questi due grafici
sono stati pubblicati nell’ultimo report della Challenger, Gray & Christmas, azienda leader nel coaching dirigenziale. Il primo ci indica come da inizio anno il numero record di 518 amministratori delegati ha abbandonato il proprio posto di lavoro, il livello più alto da quando viene tracciato lo storico, ovvero dal 2002. Rispetto al medesimo arco temporale del 2021 siamo al +18%, in aumento anche rispetto ai 513 del 2019.
la seconda immagine, invece, mostra come l’industria con il maggior numero di Ceo in libera uscita sia la Government/Non-Profit, la quale annovera 118 addii da inizio anno e 27 solo a marzo. Un aumento del 53% su base annua, poiché fra gennaio e aprile 2021 furono solo 77 gli amministratori delegati ad abbandonare la nave. Eppure, il mondo Esg è stato benedetto proprio da Davos e dai suoi sacerdoti laici come la rivoluzione del secolo, una transizione ecologica che necessiterà di decenni per essere completata e che avrebbe permeato di sé ogni ambito. Ma da quel mondo si scappa a gambe levate. Proprio ora che, apparentemente, le società occidentali e di libero mercato hanno colto in maniera drammatica il senso di pericolo legato alla dipendenza energetica da fonti fossili russe. Non si scappa dalla finanza, il cui settore ha infatti registrato solo 31 dimissioni di Ceo, si scappa dal meraviglioso mondo della sostenibilità e della governance.
Forse la grancassa di Davos non può permettersi di ammettere come l’ennesimo fenomeno sdoganato dalle cosiddette élite mondiali stia per esplodere in maniera decisamente fragorosa e con enorme anticipo rispetto ai tempi di decantazione da rana bollita dei precedenti? O forse sono questi due grafici
a offrirci una spiegazione: davvero la Fed può tenere fede alla sua promessa di un quantitative tightnening da 1 trilione di dollari nei prossimi 12 mesi?
Come mostra la prima immagine, il precedente del 2018 parla chiaro: la Banca centrale Usa poté mantenere in scena la pantomima solo per un trimestre, poi dovette invertire repentinamente il senso di marcia. E quando nell’estate del 2019 tentò di nuovo l’azzardo, ci pensò la crisi del mercato repo di metà settembre a creare i prodromi del Qe tout court, sostanziatosi poi con la pandemia.
Forse è questo che Davos non può dirci? Ovvero che il mondo del capitalismo, di cui si vanta di essere voce e gotha, altro non è che un casinò con tutte le carte truccate e basato su bluff e debiti da saldare? Il secondo grafico parla chiaro: i credit markets hanno messo il veto sui piani (veri o millantati) di Jerome Powell per uscire dall’indebitamento strutturale perenne. Pena vedere Wall Street approcciarsi a un drammatico re-couple verso il trend dell’obbligazionario spazzatura. E in perfetta contemporanea con Davos, ecco che i mercati finanziari basati sul leverage sono completamente congelati, quello dell’alto rendimento Usa nel mese di maggio ha prezzato solo due emissioni di junk bonds e, cosa ben più seria, no deals currently in the pipeline. Ovvero, nessuno si azzarda a maneggiare quel debito.
Sono i numeri e non le chiacchiere dei convegni a parlare. Le condizioni finanziarie stanno contraendosi molto più rapidamente di quanto la Fed abbia preventivato. Stando al tracciamento di Bloomberg, quello attuale è il mese di maggio con i volumi più lenti dal 2008. E anche a livello di flussi da inizio anno siano a 55,3 miliardi di dollari, un calo del 75% dal 2021, ancora in pieno diluvio di liquidità da Covid. Cosa più grave, a patire sono i grandi nomi, quelli più credibili a livello di rating: lo spread medio su obbligazioni corporate investment-grade oggi è a 150 punti base, il massimo dal luglio 2020. Ovvero, piena crisi da pandemia globale. Sarà per questo che a Davos si è pensato di intavolare l’intera narrazione sull’intervento in video del presidente Zelensky, piuttosto che mettere mano al caso clinico del Frankenstein del Qe che, dopo essere tornato in vita, sta per ribellarsi allo scienziato pazzo?
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