Il gigante dello streaming paga inflazione e iper-concorrenza. Ma anche la paradossale e distopica trasmigrazione delle emozioni forti nelle news: se Musk vuole Twitter è perché la mediazione è morta
Dieci anni di numeri in costante crescita e azionisti convinti di aver fatto comunella con Re Mida. Poi, bastano 200.000 abbonamenti in meno in un trimestre contro le attese di 2 milioni in più - seppur a fronte di 220 milioni di utenti nel mondo - per far finire di colpo l’illusione. Tracollo in Borsa, analisti un tempo zuccherosi tramutati in impietosi Torquemada, criticità che immediatamente paiono moltiplicarsi come funghi dopo un temporale.
O come un virus. Quello che apparentemente aveva incoronato definitivamente Netflix come punta di diamante del comparto cosiddetto Stay at home, ovvero titoli legati a doppio filo ai lockdown e alle restrizioni da pandemia. Servizi di tv via streaming ma anche macchinari per la palestra in casa o elettrodomestici per una sorta di autarchia alimentare pandemica. Tutto ciò che rendeva più confortevole il confinamento sociale era benvenuto. E acquistato con il badile. Poi è stato il momento d’oro dei vaccini e del comparto pharma, la rivincita del settore cosiddetto Get out and party: quindi turismo, viaggi, ristorazione, alberghi, intrattenimento. Ma quando la tua lettera iniziale fa parte dell’acronimo Faang, allora tutto appare superabile. Anche la fine dell’emergenza e delle serate sul divano a consumare film e serie televisive.
Ma ecco che il combinato di inflazione, chiusura del mercato russo e concorrenza spietata al ribasso nell’ambito dello streaming cominciano a farsi sentire. Primo trimestre 2022, -200.000 abbonati. Nulla rispetto ai numeri totali ma con il preavviso di un calo previsto per il secondo trimestre quantificabile già ora fra 1,5 e 2 milioni. Insomma, sempre poco ma anche sempre crescente come trend in negativo. La cosiddetta inversione di tendenza, il possibile esaurimento del bacino potenziale. E quando, come appena accaduto, Discovery e Warner Bros decidono di chiudere dopo solo un mese CNN+, trasferita ingloriosamente su HBO Max in attesa di oblio, significa qualcosa. Perché dopo la fusione, i due colossi hanno guardato in faccia la realtà: per quanto la grancassa legata al lancio del servizio streaming del canale di news più iconico d’America sia stata degna di un evento epocale, i grafici parlano chiaro. E 55 miliardi di debito da onorare, ancora di più. Effetto Quibi, insomma, l’operatore streaming solo per smartphone chiuso dopo pochi mesi e con 2 miliardi di dollari gettati al vento.
Fine corsa per il settore? Guai per il Nasdaq, dopo un -17% che è coinciso con il calo del 15,8% del margin debt dai suoi massimi, sintomo di una sindrome da snake-oil maker, le pozioni magiche vendute nei circhi itineranti, che negli ultimi 12 anni di monetarismo a pioggia ha garantito cicliche miniere d’oro e spesso dolorose prese al volo di coltelli cadenti? Certamente sì. Ma c’è dell’altro. Non è un caso, infatti, che Netflix pare aver alzato bandiera bianca proprio ora: perché la fiction, di fatto, è trasmessa in chiaro, H24 e senza interruzioni su telegiornali e talk-show. L’Ucraina con le sue stragi, le sue versioni contrastanti, la sua minaccia di escalation nucleare, la sua Guerra fredda tech e 2.0 racchiude in sé un intero catalogo di serie televisive. Non fosse altro, a partire dal passato di comico e attore del deus ex machina della crisi, il presidente Zelensky. La sua t-shirt mimetica, le sue dirette da luoghi simbolo, la sua onnipresenza sono la quintessenza di un colossale e pericolosissimo wag the dog collettivo.
Il quale, infatti, vive in contemporanea un’altra svolta epocale: se la fiction è stata soppiantata dalla realtà, ora non occorre più crearla ma raccontarla. Detto fatto, Elon Musk lancia l’Opa su Twitter. L’antitesi alla narrazione via streaming: scarno, rapido, fulmineo. E, soprattutto, in grado di rigenerarsi continuamente. Netflix crolla per mille ragioni, dalla saturazione del mercato agli errori legati al blocco delle condivisioni fino all’addio al mercato russo. Ma, soprattutto, crolla perché il mondo pare non rendersi conto di essere parte integrante di un film distopico che non necessita di montaggio, attori e registi. Solo di telegiornali e dibattiti. Raccontare la realtà è la nuova fiction. E questa immagine
ne offre un esempio: in quale altro momento storico di crisi, a partire dall’11 settembre in poi, una banca d’affari ha rivendicato il proprio essere schierata e parte in causa in un conflitto, mostrandosi orgogliosamente nei panni di sponsor di un programma per l’accoglienza negli Usa di profughi ucraini? E’ realtà. Ma sembra fiction.
Il problema? Basta un breve elenco solo delle ultime 36 ore. La Cina mette in guardia gli Usa su Taiwan, la Russia testa un missile intercontinentale, l’America annuncia rifornimenti di armi non-stop verso Kiev e i delegati di Stati Uniti, Ue e Bce si alzano in sede di G20, quando prende la parola il ministro delle Finanze russo. Sullo sfondo, sanzioni che minacciano di innescare una recessione con pochi precedenti nella storia recente. E un’escalation militare che, giorno dopo giorno, pare perdere i connotati della mera guerriglia verbale e assumere quelli di una preparazione di lungo corso sul polveroso ciglio della strada di un accident waiting to happen.
Un incidente potenzialmente nucleare, però. Forse anche per questo Netflix attira meno interesse, perché basta accendere il telegiornale per ritrovarsi in un clima da Baia dei porci. Sperando che il passo successivo, in Europa, non sia quello di poter spegnere anche la tv. E aprire la finestra per calarsi in quello strano incubo distopico divenuto tale di colpo, quasi senza che ce ne accorgessimo. Quasi la primavera avesse voluto giocarci uno scherzo.
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