Via libera preliminare della Commissione Ue ai primi 21 miliardi per finanziare il PNRR: una richiesta avanzata da Roma a dicembre e approvata a 24 ore dal cambio di rotta su SWIFT e armi all’Ucraina
Ormai l’approccio andreottiano alla realtà politica è divenuto d’obbligo: troppe le casualità e le coincidenze che si susseguono per far riferimento unicamente al destino e ai suoi misteri. Ieri la Commissione Ue ha infatti fornito il suo via libera preliminare ai primi 21 miliardi del Recovery Fund destinati all’Italia e al finanziamento del PNRR, denaro richiesto ufficialmente da Roma sul finire dello scorso dicembre. E che l’incursione critica del falco Vladis Dombrovskis - non più tardi dello scorso 25 gennaio - su attuabilità ed efficacia del nostro impegno sulla riduzione del debito, a fronte di voci su un nuovo scostamento di bilancio per tamponare il caro-bollette, aveva messo non poco in discussione. Quantomeno nelle tempistiche.
E invece, luce verde. Certo, ora occorrerà attendere il parere vincolante e finale del Comitato economico finanziario. Certo, di quei 21 miliardi solo 10 fanno riferimento a sovvenzioni, mentre 11 sono prestiti da restituire. Ma a nessuno dovrebbe sfuggire, quasi in via cautelativa obbligata, la strana coincidenza temporale fra netto cambio di linea del governo italiano su estromissione della Russia da SWIFT e fornitura diretta di armamento all’Ucraina e sblocco della tranche. Sicuramente una pura coincidenza. La quale, a sua volta, porta però con sé altre due appendici su cui sarebbe il caso di riflettere, a fronte di una realtà italiana che da 72 ha visto sparire totalmente il Covid dalla bacheca delle priorità ma che ancora non fissa date precise per il ritiro delle restrizioni. A differenza di tutti i partner Ue. Prima appendice, la proclamazione di un nuovo stato di emergenza legato alla situazione bellica che proseguirà fino al 31 dicembre. Seconda appendici, il tempismo da centometrista con il segretario del PD ha invocato la sospensione del Patto di Stabilità per un anno, al fine di tamponare gli effetti negativi delle sanzioni appena imposte.
Insomma, tutto troppo automatico per non lasciare trapelare il dubbio di un copione già scritto. E, soprattutto, di quello che ormai appare un gioco a somma zero per il nostro Paese. Un prendere continuamente tempo, un’emergenza dopo l’altra, al fine di rimandare il redde rationem in attesa di un miracolo. Lo spread ha cominciato a sgonfiarsi, chiaramente per la prezzatura che il mercato opera rispetto alle decisioni che verranno assunte la prossima settimana al board Bce. Se infatti fino a dieci giorni fa il timore era quello di una fine drastica degli acquisti entro il 30 settembre, oltretutto con il controvalore in capo all’APP che già nel terzo trimestre sarebbe sceso a soli 20 miliardi mensili, ora la guerra ha cambiato tutto. E nessuno, Bundesbank in testa, pare intenzionato ad andare alla battaglia dei tassi. Anzi, Christine Lagarde ha scomodato un dèjà vu pesante, utilizzando la formula dei whatever it takes per evitare che sanzioni e contraccolpi bellici colpiscano la crescita economica Ue. Come dire, tapering confinato in cantina prima ancora che mettesse il naso fuori.
Una buona notizia per l’Italia. La quale, però, deve fare i conti con un sentiero di riforma che si fa sempre più stretto, già tracciato e appunto con un rischio di cortocircuito fra entrate e uscite. Dove andranno e quanto dureranno, infatti, quei 21 miliardi in arrivo? Riuscire a mettere in campo il minimo sindacale per tamponare il fall-out energetico su imprese e famiglie è costato sette camicie al governo, vincolato appunto al non ricorso a nuovo scostamento di bilancio, come da consiglio di Dombrovskis. Ora però occorre mettere mano al bilancino. Se infatti l’impegno bellico ha messo le ali in Borsa al comparto difesa e giocherà un ruolo di doping sul Pil anemico del primo e secondo trimestre, esattamente come il SuperBonus poi giubilato lo ha fatto per l’intero 2021, vanno fattorizzate due criticità decisamente serie. E onerose.
Primo, appunto, la scarsezza delle risorse messe sulla manovra di aiuto contro i rincari energetici, totalmente insufficiente per garantire alle aziende una competizione con i rivali ad esempio francesi (aumenti calmierati al 4% e, soprattutto, boost garantito dal nucleare). Secondo, la ritorsione già annunciata da Mosca a livello di sanzioni. E qui rischiamo di pagare un prezzo altissimo. Primo per l’esposizione bancaria, la maggiore nell’Eurozona con circa 25 miliardi. Secondo per eventuali blocchi dell’export per dazi e bandi e pagamenti a causa proprio dell’estromissione delle banche russe da SWIFT. Il tutto in un contesto che vede il nostro Paese vantare un interscambio da 26,6 miliardi con Mosca al 31 dicembre scorso e un export che si attestava attorno agli 11 miliardi.
Fatta la tara a quei 21 miliardi europei, di cui meno della metà è a fondo perduto, quanto rischiamo di andare a rimetterci, volendo superare i bastioni di Orione della retorica da PNRR e sporcandoci le mani con il fango dell’economia reale? Appunto, un potenziale gioco divenuto a somma zero. Ma attenzione, questo nella migliore delle ipotesi. Perché quando Serghei Lavrov sottolinea come Mosca riterrà responsabili i Paesi che hanno venduto armi all’Ucraina per l’utilizzo che ne verrà fatto, il rischio è quello di un congelamento dei rapporti economico-commerciali con la Russia di lungo periodo. A quel punto, la somma non sarà più zero. Ma drammaticamente negativa.
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