Se al Festival dell’Economia si discetta di criptovalute, il Paese si concede il last hurrah prima delle code alle finanziarie. Perché manca poco alla soglia di insostenibilità del debito. Dopo, MES
Una delle poche certezze su cui si poteva contare fino a oggi era l’ottimismo a oltranza di Elon Musk. Al limite, spesso, del parossismo. Bene, quando anche il patron di Tesla comunica 10.000 licenziamenti, il blocco di nuove assunzioni e si lascia scappare un ho una pessima sensazione sull’economia, forse c’è da porsi qualche domanda.
Al Festival dell’Economia di Trento, invece, volano alto. Altissimo. E cavalcano unicorni. Perché dedicare tempo ed energie, in un momento come quello attuale, al rischio insito nelle criptovalute, equivale a chiedersi se i calzini siano in tinta con la cravatta, mentre si sta evacuando in fretta e furia da un palazzo in fiamme che minaccia di crollare. Certo, il ministro Giorgetti ci ha provato a riportare il dibattito con i piedi per terra, buttandola sul concreto e invitando tutti a focalizzarsi sul taglio del cuneo fiscale come vera priorità. Sacrosanto. C’è un problema, però: con quali soldi lo si finanzia, se l’Ue ha già oggi bloccato ogni ulteriore scostamento o deficit? Si taglia? E cosa, se il dibattito del giorno verteva sull’assalto alle rendite e ai patrimoni per aumentare i salari devastati dall’inflazione? La stessa, tra l’altro, che il 90% degli esperti presenti a Trento riteneva transitoria e assolutamente innocua. In alcuni casi, addirittura benefica per le ratio del debito pubblico.
Insomma, la nostra piccola Davos non tradisce le aspettative. Supercazzole come se piovesse. In compenso, 14 milioni di italiani sembrano aver percepito meglio di economisti e politici l’aria che tira e, consci di un temporale in arrivo, hanno deciso di godersi l’ennesimo ponte. Stamattina Milano sembrava avvolta da una coltre di inattività agostana. Sui mezzi pubblici, quasi solo turisti stranieri. Persino i corrieri di Amazon apparivano rilassati, talmente il traffico era scorrevole. Sicuramente i destini del Paese non dipendevano da un 3 giugno di febbrile attività produttiva, sia chiaro. Ma resta il fatto che, al netto dei 200 euro che il governo ha stanziato e che ancora devono materializzarsi, quotidianamente si assiste a un coro si lamentele per il carovita. Sacrosante. Ma che dovrebbero poi essere seguite da comportamenti in linea. Certo, il turismo ha bisogno di consumi. Ma noi non siamo gli Usa, dove il Pil dipende al 70% da quella voce e lo schema Ponzi su cui si regge la nazione è l’indebitamento strutturale e a vita.
Insomma, questo ponte del 2 giugno ha il sapore del last hurrah. L’ultima notte di follia, prima del ritorno alla realtà. Perché se è vero - come è vero - che bollette, affitti, mutui e spese inderogabili stanno devastando i salari e comprimendo il potere d’acquisto su livelli allarmanti, delle due l’una: o questa estate il comparto ricettivo dovrà basarsi unicamente sul turismo straniero oppure stiamo per assistere a un pellegrinaggio di massa stile La Mecca verso le finanziarie, al fine di ottenere prestiti per pagare le vacanze. I numeri non mentono, al limite lo fanno le persone. Se i salari sono quelli e i prezzi in aumento, tutto è impossibile ottenerlo. E dando per scontato che luce e gas siano oneri prioritari rispetto alla pizza o al weekend e che la spesa al supermercato sia sì razionalizzabile ma fino a un certo punto, something’s gotta give. Qualcuno o qualcosa deve cedere. E rinunciare.
Anche perché mentre a Trento si correva sugli unicorni e lungo lo Stivale si cercava di dimenticare per un paio di giorni le rate e i RID, sui mercati proseguiva la svendita del nostro debito. Con il Btp benchmark che chiudeva la giornata al 3,41% di rendimento, in netto aumento dal giorno precedente. Il tutto, giova sottolinearlo, non solo con la Bce ancora in parte operativa attraverso l’APP ma soprattutto con banche e assicurazioni impegnate in un patriottico quanto controvoglia ritorno del doom loop per schermare lo schermabile. Inutile prendersi in giro, però. Manca poco all’insostenibilità del nostro debito. Il 3,5% è ritenuto pressoché da tutti il Rubicone da non varcare. E per quanto economisti e politici possano rassicurare, la realtà è quella della percezione di mercato: raggiunto quel livello, la sell-off è assicurata. Automatica. E auto-alimentante.
Perché i valori di VaR vanno rispettati, quando si entra in fasi di insicurezza e instabilità come quella attuale, praticamente un unicum. Tale, appunto, da aver spinto addirittura Elon Musk a tramutarsi in Mr. Doom. Nelle prossime due settimane, sia la Bce che la Fed si riuniranno e dovranno offrire risposte a un’inflazione ormai palesemente fuori controllo. E con un quadro bellico che, apparentemente, si sta dando un po’ troppo per scontato. La reazione di solenne indifferenza delle valutazioni del petrolio alla notizia dell’aumento della produzione Opec per luglio e agosto parla chiaro rispetto a un quadro d’insieme che ormai mostra i connotati dell’uncharted territory.
Certo, a Trento si è avanzata la proposta di uscita di massa delle banche europee dalla Russia come geniale intuizione per piegare il Cremlino ma la medesima fonte Eba che si è resa protagonista della boutade, in cuor suo probabilmente ogni sera - prima di addormentarsi - prega affinché i Level 3 degli istituti del Vecchio Continente non facciano crack al prossimo azzardo della Fed. Insomma, andrà tutto bene? No. E manca poco prima che il nostro rendimento sul decennale ponga fine a tutte le baruffe chiozzotte in seno al governo e spalanchi le porte all’unica via d’uscita percorribile. Ricorso al MES riformato, stracarico di condizionalità e garanzie. Perché chi pensava che far passare il DL Concorrenza a tempo di record sarebbe bastato, probabilmente oggi era al mare o a Trento. E non davanti a un terminale di negoziazione a guardare le montagne russe del nostro Btp. E con il Patto di stabilità sospeso per un altro anno, stavolta anche l’alibi dell’austerity tedesca rischia di non attecchire.
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