Sfruttando la cortina fumogena dei 300 milioni dei russi (in 8 anni e spalmati su 20 Paesi) per destabilizzare governi esteri, Washington ingrana la marcia dello scontro totale. E la Fed si prepara
Le cortine fumogene, d’altronde, servono a questo. E gli Stati Uniti non appaiono secondi a nessuno nell’abilità di sfruttarne gli effetti. A 12 giorni dal voto, l’intelligence Usa rende noto che la Russia avrebbe investito almeno 300 milioni di dollari dal 2014 in poi in 20 Paesi per indirizzare gli esiti del voto e le politiche dei governi. Insomma, ora sappiamo che al Cremlino hanno il braccino corto. Perché bastano un paio di divisioni da terza elementare per capire che la cifra stanziata in presunte mazzette e prebende sarebbe stata sufficiente, sì e no, per pagare i volantini. O forse la colla per i manifesti elettorali.
Basta poco per fare un raffronto. Questo grafico
mostra infatti quanto messo in campo a livello di fondi negli Usa per le elezioni presidenziali e legislative per il Congresso dal 2000 ad oggi. E si tratta di fondi necessari al finanziamento legale e rendicontato del processo democratico, ovvero pura campagna elettorale per guadagnare consensi. Insomma, stipendi dello staff, manifesti e volantini, comizi, gadgets vari. Nel 2000, quando si andò al risparmio, la spesa fu di oltre 4 miliardi di dollari. Quindi, gli 007 Usa ci dicono che una forza nemica della Nato avrebbe stanziato per le sue attività di proselitismo politico segreto 300 milioni in 8 anni e spalmati su partiti e politici di 20 Paesi. Roba da hard discount della destabilizzazione.
Paradossalmente, però, la prova provata di un’interferenza nell’interferenza. Perché quando l’ex ambasciatore Usa presso la Nato (ed ex inviato speciale per l’Ucraina dell’amministrazione Trump), Kurt Volker, abbandona la diplomazia richiesta dal suo ruolo per puntare il dito contro Lega e Fratelli d’Italia alla vigilia dell’appuntamento elettorale, appare difficile non notare il connotato di assist politico per gli avversari. Ma purtroppo, tutto questo appare del tutto residuale rispetto al quadro di insieme delle ultime 24 ore.
Durante le quali, ad esempio, a fronte dei 300 milioni russi che hanno catalizzato l’attenzione come un Big Bang, Wall Street ha bruciato 1,6 trilioni di capitalizzazione. In 6 ore di trading. E con somma gioia di una Fed che già ora si prepara a 100 punti base di rialzo la prossima settimana, almeno stando ai futures. Di fatto, Washington ha di nuovo totalmente in mano le leve del mercato. E non solo azionario, bensì monetario.
Ma anche in questo caso, trattasi di dettagli. Perché mentre esplodeva il Russiagate 2.0, ecco cosa rilanciava in esclusiva Bloomberg:
The US may begin refilling its emergency oil reserve when crude prices fall to around $80 a barrel https://t.co/XhOQ5X7yd6
— Bloomberg (@business) September 13, 2022
soltanto 24 ore dopo l’ennesimo drenaggio record dalla riserve strategiche, tale da aver portato il totale al livello più basso dal 1982, ecco che l’amministrazione Biden lascia filtrare la sua intenzione di cominciare a comprare barili per rimpinguare le medesime scorte, quando la valutazione toccherà gli 80 dollari.
Imitando Kurt Volker e lasciando quindi da parte diplomazia ed eufemismi, trattasi di aggiotaggio. E appare decisamente strano il silenzio che ha accompagnato questa notizia, stante i fiumi di indignazione per la speculazione in atto sul gas alla Borsa di Amsterdam. Se fosse confermata l’indiscrezione, infatti, nientemeno che la presidenza Usa opererebbe da mano visibile su un mercato finanziarizzato e geopoliticamente strategico come quello del greggio, di fatto ponendo in essere una turbativa di mercato ex ante. Meglio pensare ai russi.
Ma ecco che, sempre ieri, Reuters ha svelato una seconda agenda nascosta statunitense, ancor più clamorosa e spartiacque della precedente:
EXCLUSIVE U.S. considers China sanctions to deter Taiwan action, Taiwan presses EU https://t.co/tYOABNs6JD pic.twitter.com/MyyWRTbjyZ
— Reuters (@Reuters) September 14, 2022
EXCLUSIVE Taiwan hosts dozens of foreign lawmakers in Washington to push China sanctions https://t.co/qZ5iZ8YDeM pic.twitter.com/ovZNZ9Pca7
— Reuters (@Reuters) September 14, 2022
l’amministrazione Biden starebbe già lavorando a un pacchetto di sanzioni preventive contro la Cina, al fine di porre immediatamente in atto un muro di deterrenza economica al progetto di invasione di Taiwan. E non solo la strategia sarebbe così avanzata da vedere funzionari di Taipei ospiti a Washington per lavorare al progetto ma si scopre che anche l’Unione Europea sarebbe già in pista per l’adozione delle medesime misure di bando e restrizione contro Pechino. Insomma, mentre comincia solo ora a fare dolorosamente i conti con il costo energetico delle sanzioni alla Russia, Bruxelles si preparerebbe ad adottarne di nuove contro la Cina.
E se tutto quanto scritto finora non ha sortito alcun effetto, forse questi due grafici finali
mostrano in maniera più chiara quale appare l’obiettivo finale: ridimensionare in maniera letale l’economia europea, colpendo al cuore la sua locomotiva, già pesantemente fiaccata dal caro-energia. E il quadro di insieme appare decisamente poco prono a interpretazioni: gli Usa non hanno patito alcun impatto diretto dall’attuale crisi energetica a livello di Pil, mentre Germania, Spagna, Grecia e Italia stanno pagando un prezzo infinitamente più alto di quello imposto dalle crisi energetiche del 1974 e 1979. Ancora sicuri che la notizia degna delle aperture di giornali, tg e siti sia quella legata al presunto argent de poche destabilizzatore del Cremlino?
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